INDICE n. 7 – 1999
In questo numero: Nota redazionale
S. Fornero
Gruppi nella scuola tra tempo istituzionale e tempi di formazione
A. Gentinetta
Tempi dell’individuo e tempi del gruppo: esperienze in gruppi clinici
L. Spadarotto
Tempo e organizzazioni
Le relazioni dei Recorder
A. Brisone
A. Musoni
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IN QUESTO NUMERO: NOTA REDAZIONALE
In questo numero dei «Quaderni di Gruppoanalisi» pubblichiamo il materiale relativo alla giornata seminariale svoltasi a Torino, presso la Scuola di Amministrazione Aziendale dell’Università di Torino, il 17 Aprile1999.
Il seminario, organizzato dalla Scuola APRAGI di Formazione alla conduzione di gruppo, era aperto a tutte le persone interessate, ha avuto il Patrocinio della Provincia di Torino, del Comune di Torino, della Scuola di Amministrazione Aziendale dell’Università, il riconoscimento del Provveditorato agli Studi di Torino quale corso di aggiornamento per insegnanti e dirigenti scolastici ed è stato inserito nel programma formativo del Training APRAGI della Scuola di Formazione alla Psicoterapia della COIRAG – Istituto di Torino.
Pubblichiamo le relazioni svolte, durante il seminario, da Saura Fornero e Alma Gentinetta e alcune osservazioni di Luigi Spadarotto che ha condotto, nella mattinata, un’ esercitazione applicativa.
Seguono le relazioni di due partecipanti, allieve della COIRAG, che al pomeriggio hanno svolto la funzione di «recorder» in due diversi gruppi, condotti con tecnica gruppoanalitica
S. Fornero
Gruppi nella scuola tra tempo istituzionale e tempi di formazione
GRUPPI NELLA SCUOLA TRA TEMPO ISTITUZIONALE E TEMPI DI FORMAZIONE
Saura Fornero
Vorrei riprendere e sviluppare uno dei punti cui avevo accennato durante il seminario del 18 aprile dello scorso anno, parlando a proposito degli elementi significativi in diversi tipi di gruppo presenti nella scuola.
Tra tali elementi – si era detto – il tempo occupa un ruolo rilevante.
Il binomio tempo e processi di formazione rimanda a un contesto teorico complesso; sebbene per accenni, si ritiene opportuno tentare di collocare l’argomento nella sua cornice di riferimento, nella consapevolezza che la riflessione oggi proposta fa parte di un ambito di confine tra diverse discipline scientifiche, sia di collocazione umanistica che classica, intorno al quale il dibattito si svolge con vivacità e da posizioni diverse per presupposti e implicazioni.
Riflettere intorno al tempo e alla formazione pone in evidenza la questione della percezione soggettiva del tempo.
Possiamo considerare lo scarto tra tempo soggettivamente percepito e tempo cronologico come una delle conseguenze socioculturali del modo di produzione industriale: affidare il computo temporale del lavoro umano alla scansione cronometrica indifferente alle ciclicità naturali (all’alternarsi stagionale così come a quello tra il dì e la notte) ha significato porre la misura del tempo al di fuori di sé. Il trascorrere del tempo – oggettivato in scansioni identiche, misurabili e indefinitamente ripetibili – diventa altro, si separa dalle percezioni soggettive del tempo e dei suoi «diversi» modi di durare.
«Un bel gioco dura poco», si dice, condensando in qualche parola la comune e complessa esperienza del percepire la durata di un tempo piacevole come tendenzialmente breve e come «eterna» la durata del tempo in situazioni avvertite come spiacevoli.
Altro punto cardinale nella riflessione sul rapporto tra tempi e formazione riguarda la capacità individuale e collettiva, caratteristica della nostra specie, di rappresentarsi la realtà.
La gruppoanalisi guarda all’essere umano da un punto di vista che trova spunto nella posizione dell’antropologo Gehelen e dell’anatomista Bolk. Secondo la prospettiva di Bolk (1926), ripresa da Gehelen nel 1978 «L’animale uomo sembra l’esito di un preconcepimento imperfetto […] e tutta la sua struttura morfologico-funzionale si caratterizza [quindi] per un difetto di specializzazione.» (D. Napolitani, 1987, p. 173).
Che cosa significa questo presupposto, che Diego Napolitani pone tra i fondamenti della propria posizione gruppoanalitica?
Possiamo iniziare dalla considerazione che solo l’essere umano, tra tutti gli esseri viventi, è contemporaneamente «naturale» e «culturale»: egli, infatti, è biologicamente esistente, così come lo è ogni altro essere vivente sul nostro pianeta; possiamo agevolmente pensare l’essere umano come caratterizzato da un proprio ciclo vitale, con durata e peculiarità specie-specifiche.
Ma l’essere umano è anche, allo stesso tempo, culturalmente esistente, cioè caratterizzato da peculiarità anche molto diverse, a seconda dei suoi gruppi di appartenenza (la famiglia, l’etnia, la nazione, ecc.) e dei gruppi cui, nel corso della vita, scelga di far riferimento o nei quali si trovi coinvolto.
Possiamo considerare gruppi di riferimento le istituzioni di cui ciascuno di noi fa parte o con cui è in relazione, da quelle più «evidenti», tradizionali e strutturate (gli apparati produttivi e di servizi statali e non) a quelle più contingenti (i partiti politici, le associazioni, i gruppi di opinione, i gruppi spontanei, ecc.).
A motivo del suo originario e biologico «difetto di specializzazione», l’essere umano si trova – unico tra gli esseri che, come lui, vivono e si riproducono – a stare nel mondo come produttore instancabile di «cose», più o meno concrete, che esistono proprio solo in quanto produzione squisitamente umana.
Un’immensa creatività, apparentemente slegata dal piano biologico della vita, una vis produttiva stupefacente, nella prospettiva antropologica gruppoanalitica, cessa di essere il segno inequivocabile di una superiorità evolutiva, comunque di una sorta di privilegio – magari di origine e natura divine -, e diventa reazione a un difetto originario.
L’essere umano, cioè, non sarebbe quel gran produttore di cose e di idee che è se non in quanto, fin dalla nascita, «difettoso»: unico tra tutti, infatti, al suo nascere, «è esposto a percepire, nel suo modo proprio, indifferentemente tutti gli oggetti a lui sensibili.» (D. Napolitani, ibid., p. 173).
In questa prospettiva, allora, unico tra tutti ancora, l’essere umano si caratterizza per l’im-possibilità di non percepire, ovvero per un certo naturale obbligo percettivo globale, non essendo – a differenza degli animali e delle piante – originariamente specializzato se non, appunto, in una sorta di «anomala», paradossale specializzazione, orientata da un tipo di percezione naturalmente non selettivo, originariamente indifferenziato.
Forme, modi, processi e risultati della sconfinata produzione di oggetti e di idee (nonché di oggetti che diventano idee – i simboli – e di idee che diventano oggetti – le tecnologie -) sarebbero, nella prospettiva di Bolk, Gehelen, D. Napolitani, il tentativo di «rimediare» a un originario difetto di sintonia, di immediata e aproblematica corrispondenza con il proprio ambiente; sarebbero risposte a un’originaria «mancanza» di quella dotazione naturale che fa di un mammifero, di un insetto, di un uccello, ecc. esseri che «nascono maestri», adeguatamente attrezzati a sopravvivere nel proprio habitat.
Affatto pre-ordinato – se non in misura minima – ad abitare un particolare ambiente rispetto a un altro, l’essere umano «rimedia» a tale «guasto» organizzativo creandosi strumenti ideali e materiali e, soprattutto, ricordando di averli creati e immaginando di crearne ancora.
Tra ricordo di qualcosa che è stato e tensione verso qualcosa che ancora non è, ma che si attende e che, forse, potrebbe essere attivamente costruito, si situa il senso del rapporto umano con il tempo, quella dimensione pensante dell’esistere per la quale ciascuno, nel proprio pensiero – magari senza nemmeno rendersene conto – può facilmente decentrarsi rispetto al tempo e allo spazio che sta contingentemente vivendo e immaginare o ricordare altri tempi e altri luoghi. Lo sterminato universo della comunicazione, delle relazioni affettivizzate esiste appunto in virtù della possibilità umana di non coincidere mentalmente con l’istante che si sta vivendo.
I due punti fin qui evidenziati (la considerazione del tempo e della sua evoluzione storica e la considerazione della naturale attitudine umana a concepire rappresentazioni mentali della realtà) sono da collocare sullo sfondo di un’attualità, dove la possibilità di accesso praticamente immediato a quantità di informazioni illimitate, consentita dalle applicazioni delle tecnologie informatiche, interessa massicciamente le aree industrializzate del pianeta.
Attraverso il medium informatico, qualsiasi evento può essere trasformato istantaneamente in comunicazione dell’evento, in quello che chiamiamo un «tempo reale»; evento ed evento comunicato diventano temporalmente coincidenti e, spesso, apparentemente indistinguibili, o – per meglio dire – vengono percepiti come se fossero un tutt’uno; generalmente, infatti, non v’è ragione immediata di distinguere un evento comunicato dai modi inerenti la sua comunicazione. Ma ci si può domandare in quali territori del pensiero e dell’azione si vadano situando le differenze tra evento comunicato ed evento non comunicato o, in altri termini, se, quanto e come la comunicazione stessa determini il passaggio ad «evento» di una certa situazione e quali siano o stiano impercettibilmente diventando i nostro modi di assimilare e rielaborare forme di comunicazione audiovisiva e generalizzata inesistenti fino a poco tempo fa.
Nel medium informatico anche la consapevolezza spaziale, oltre a quella temporale, tende a dissociarsi dalle concrete dimensioni della realtà geografica: l’utilizzo della «rete informatizzata» porta sul proprio video «pezzi di mondo» di ogni genere, in modo indifferente alla collocazione spaziale reale cui l’informazione sia riferita; su internet tutte le informazioni sono «uguali», sia che provengano dal proprio vicino di casa o da un archivio specializzatissimo distante migliaia di chilometri.
In un articoletto su Torino Sette, qualche giorno fa è comparsa una lista di una decina di indicatori di stress, anche riferiti all’uso degli strumenti informatici e senz’altro attinenti la cronica «mancanza di tempo»; in esso, il lettore veniva invitato a domandarsi in quanti dei punti elencati si riconoscesse, al fine di valutare il livello del proprio stress. Si andava dal tentare di inserire la password per accendere il microonde al considerarsi ammalati solo se affetti da una qualche frattura o decisamente ricoverati in ospedale al comunicare quotidianamente in «chat line» con uno sconosciuto latinoamericano e non salutare il proprio vicino di casa da più di tre mesi.
L’articoletto mi ha ricordato come i grandi mutamenti sociali – specie se connessi con «rivoluzioni» tecnologiche apparentemente meno conflittuali delle «guerre guerreggiate»- siano avvenuti, per così dire, in sordina, dando luogo a un tipo di comunicazione o leggera, comica, che tende a sdrammatizzare e stempera nel sorriso e nell’ironia note talvolta dolenti del nostro quotidiano, oppure «esperta», generalmente seriosa e non priva di spunti catastrofali.
Ora, senza pretendere di analizzare qui l’impatto delle tecnologie informatiche sui nostri stili di vita, riteniamo corretto tenerne un conto aperto e problematizzante, in quanto il nostro discorso pertiene strettamente la complessa questione della trasmissione di informazione, di cultura, di esperienza che, «ora come allora», sostanzia il processo formativo.
Si vuol richiamare l’attenzione sul fatto che in quel medium audiovisivo e interattivo che è il computer, realtà e virtualità non si presentano di per sé diversificate e su come ciò tenda a consegnare alla soggettività quote progressivamente più alte di quella fondamentale attività umana che è il discernimento tra l’una e l’altra dimensione, tra il vivere e l’immaginare di vivere.
E qui ci potrebbe soccorrere il lavoro ormai classico di M. Mc Luhan, che, nel 1964, intuiva e tentava di sistematizzare le eclatanti implicazioni psicologiche e sociologiche dell’espansione quanto-qualitativa dell’energia elettrica. Ciò che in Mc Lhuan non poté essere che un’intuizione – per quanto suggestiva e diligentemente argomentata – può ora collocarsi in coordinate di altra robustezza scientifica, grazie ai dispositivi di ricerca, confronto e provvisoria validazione dei quali – volendolo – potremmo disporre.
A Mc Luhan stava a cuore la connessione tra medium, messaggio e funzionamento del sistema nervoso umano. Convinta sostenitrice dei vantaggi e delle potenzialità democratiche e risolutive del «villaggio globale», la posizione di Mc Luhan appare oggi insieme entusiasta e ingenua, caratterizzata com’era da una decisa sottovalutazione dei conflitti e dei modi di e per gestirli.
Pur tuttavia, anche attraverso il suo lavoro si è aperta la strada – tra l’altro – agli studi che confrontano intelligenza umana e intelligenza artificiale e che, oggi, costituiscono un serbatoio di interessanti ipotesi sui processi percettivi, cognitivi e di elaborazione.
Ma se è vero che gran parte delle nostre comunicazioni può oramai tranquillamente fare a meno della coincidenza spazio-temporale tra emittente e ricevente e che la nostra formidabile capacità di decentramento attraverso la rappresentazione mentale (il nostro originario «difetto di specializzazione») è oggi amplificata in modo esponenziale dalle applicazioni informatiche, resta vero che il tutto rimane pur sempre inscritto in un corpo precisamente individuato nel tempo e nello spazio.
Ed eccoci a una delle questioni fondamentali che oggi si vorrebbero introdurre, relative al rapporto tra tempi e formazione.
Potremmo dire di noi che siamo fatti di tempo, a significare che ogni nostra attività – mentale, corporea o comunque si propenda a definirla-, non può che avvenire in un tempo preciso e irreversibile; possiamo pensare, cioè, che ogni istante che stiamo vivendo è anche un punto di non ritorno.
Generalmente, questo è un pensiero non pensato; tende a provocare quel senso di vertigine che può sopravvenire ogni volta che si tenti di porsi riflessivamente al di fuori della propria condizione particolare per guardarla, per osservarla, come se si trattasse di osservare qualcun altro. Tra osservato e osservatore, allora, si stabilisce una distanza che, anche se piccola e breve, può essere avvertita come vertiginosa: qualcosa di me che «mi» osservo è quello stesso me che sto osservando.
A questo proposito, può essere interessante considerare il dibattito scientifico che attualmente si svolge tra due diverse posizioni che, discutendo i possibili statuti teorici della fisica dopo Einstein, considerano la «freccia del tempo» come irrveresibile o, al contrario, come – almeno in via teorica – reversibile.
È un dibattito in effetti piuttosto ostico, che, forse più di altri, per il linguaggio talvolta piuttosto «rarefatto» di cui si serve, finisce per avere un pubblico specializzato.
Rimandando alla bibliografia al termine di questo lavoro chi desiderasse approfondire il tema della considerazione scientifica del tempo, basterà qui accennare al fatto che la posizione in ambito epistemologico che considera il tempo come dimensione umana irreversibile ha come conseguenza un’etica – per così dire – umanistica, improntata cioè allo studio e alla considerazione attenta della vita soprattutto sul versante della sua qualità ed effettiva, percorribile migliorabilità. È, questa, una posizione scientifica relativamente nuova (sono dei primi decenni di questo secolo le critiche all’epistemologia classica e ancora successive le posizioni che istituiscono il cosiddetto «paradigma di complessità» come fondamento di accettabilità scientifica), che pone l’essere umano e la sua esistenza temporalmente definita al centro del ragionamento scientifico.
Cerchiamo ora di esemplificare il discorso – forse a tratti astruso e di non immediata comprensibilità – svolto fin qui traendo spunto da una recente ricerca di ampio respiro internazionale sulle condotte a rischio psicosociale in adolescenti, condotta, per l’Italia, da Silvia Bonino, direttore del Dipartimento e ordinario di Psicologia dello sviluppo all’Università di Torino.
Nella ricerca, tra altri interessanti risultati che mettono in discussione alcuni consolidati luoghi comuni psicopedagogici sull’adolescenza, emerge come la prospettiva temporale sia elemento cruciale tra i fattori cosiddetti di protezione rispetto all’instaurarsi di condotte a rischio tra gli adolescenti.
Va chiarito, innanzitutto, che cosa si intenda sia per prospettiva temporale sia per condotte a rischio.
Partiamo da queste ultime. Nella ricerca di cui si è detto sono stati considerati i principali tipi di comportamento rischioso: il fumo di sigarette, il fumo di spinelli e l’uso di altre droghe, il consumo di alcol, il comportamento alimentare, il comportamento sessuale e la conoscenza dell’AIDS, i comportamenti antisociali e devianti (violenza, vandalismo, furto, ecc.) e i comportamenti rischiosi alla guida.
Per adeguata prospettiva temporale possiamo intendere, in senso lato, la capacità di rappresentare a se stessi il proprio tempo in termini coerenti con la realtà, sia come tempo già vissuto sia come situazione attuale, sia, soprattutto, come tempo da vivere.
Dall’elaborazione dei dati della ricerca è emerso che il potersi collocare correttamente nella propria prospettiva temporale pare funzionare da protezione rispetto a condotte auto- ed eterolesive in adolescenza.
In altri termini, ciò che risulta da una raffinata analisi dei dati – raffinata perché si avvale di metodologie capaci di cogliere connessioni insospettabili tra dimensioni apparentemente lontane di variabili differenti – è come la famiglia, il rapporto con i genitori rivesta comunque un ruolo fondamentale in adolescenza, in modo più che relativamente indipendente dalle posizioni e dalle opinioni dichiarate dagli adolescenti intervistati.
In sintesi senz’altro inadeguata rispetto all’articolazione del lavoro cui ci si riferisce, è possibile sostenere e argomentare che una posizione genitoriale contemporaneamente autorevole (precisa e intelligente nello stabilire e mantenere limiti e regole funzionali al percorso di sviluppo) e supportiva (affettuosa e disponibile al confronto non formale) protegge dall’instaurarsi di condotte a rischio.
Come scoprire l’acqua calda, forse, se ci si limita a prenderne atto. Ma, se la si assume come prospettiva di rivisitazione dei ruoli adulto e genitoriale – che paiono spesso più orientati a evitare conflitti con gli adolescenti che a contenerne l’inevitabilità fisiologica al fine di promuoverne l’elaborazione il superamento -, può contribuire alla costruzione di punti di vista più critici e consapevoli dell’importanza dell’ assunzione di responsabilità da parte degli adulti nelle loro relazioni con adolescenti.
Le percezioni soggettive del tempo, il suo trascorrere oggettivo ad esse indifferente, modi «adulti» (quali?) di intendere il tempo che sono ingredienti relazionali capaci di proteggere senza soffocare e di aiutare a crescere e che, se carenti o mancanti, possono compromettere seriamente lo sviluppo: attraverso una breve passeggiata nel campo teorico e un’esemplificazione di ricerca, ci stiamo un po’ addentrando nel discorso intorno al tempo e ai processi di formazione.
Possiamo affermare che ciò che differenzia in modo significativo (o che – forse più realisticamente – si vorrebbe che differenziasse) la condizione adulta da quella adolescenziale o non adulta è la diversa relazione che adulti e non adulti hanno con le proprie rispettive prospettive temporali.
Possiamo dire che una condizione adulta non riferita soltanto all’ovvia precedenza anagrafica rispetto a una condizione infantile o adolescenziale consista essenzialmente in quella che potremmo definire una a-simmetria di esperienza tra adulto e non adulto.
Per esperienza si intende un fenomeno piuttosto complesso, costituito, in sintesi, dalla storia esistenziale, connessa con la capacità di riflessione, di pensiero, di elaborazione. Condensando in una battuta la complessità concettuale contenuta in questa definizione di esperienza, potremmo dire che ha esperienza chi sa di averla, e distinguere, in tal modo, l’ambito dell’esperienza come riflessione con esiti di consapevolezza dall’ambito dell’esperienza come semplice esistenza, come durata, accumulo quantitativo di eventi relativamente privi di un senso specificamente personale e realistico.
Ora, nella definizione dell’esperienza come area prossima alla consapevolezza e caratteristica adulta, la prospettiva temporale occupa un posto rilevante.
Se, infatti, la condizione di adulto è caratterizzata dall’esperienza, la prospettiva temporale adulta – vale a dire, lo ricordiamo, il collocarsi consapevolmente nel tempo che si sta vivendo, con coscienza sia del proprio passato come tempo trascorso sia del proprio futuro come tempo che si vivrà – sarà piuttosto diversa da quella di chi adulto non è, proprio in relazione al valore esperito del tempo.
Sappiamo che il tempo del bambino è un tempo pressoché istantaneo, perché la capacità tipicamente umana – di cui si è detto – di autorappresentarsi la realtà si sviluppa e si consolida nella relazione con la madre e con il mondo, come progressiva e non lineare possibilità di dilatare il tempo istantaneo, di transitare da posizioni prossime al «tutto e subito» a posizioni via via più differenziate rispetto alle caratteristiche delle situazioni che si incontrano.
Sappiamo anche che l’adolescenza è un periodo di mutamento, durante il quale si producono tali cambiamenti – intanto, sul piano bio-fisiologico – che, per intensità e velocità, vengono paragonati all’accelerazione evolutiva dei primi diciotto mesi di vita, nei quali l’essere umano si trasforma da lattante in bambino che cammina e parla.
A una formidabile accelerazione nel cambiamento corporeo non corrisponde un altrettanto fisiologica accelerazione adattiva nelle capacità di pensare. Affinché il pensiero si doti di proprie categorie di riferimento e di giudizio, utili ad orientare efficacemente nelle scelte esistenziali, occorre che si costruiscano e gradualmente si consolidino modalità riflessive del «fare esperienza».
A motivo dello scarto che in adolescenza si produce tra sviluppo corporeo e pensiero, essa viene tradizionalmente definita come un’età critica, dove la posizione infantile del «tutto e subito» ritorna in primo piano, a significare che l’adolescente è spesso alle prese con una rinnovata incapacità di autorappresentarsi in una dimensione temporale che non sia istantanea, come quella, cioè, di quando era un bambino inconsapevole.
Nell’adulto, si assume teoricamente che la capacità di riferirsi a un’adeguata prospettiva temporale si sia consolidata attraverso un’attività riflessiva sull’esperienza vissuta.
È proprio qui, allora, che può innestarsi la connessione tra tempo e processo: si può ritenere che, a differenza del bambino e dell’adolescente, l’adulto sappia – per averlo vissuto e averci pensato – che un tempo, inteso come durata, è dimensione inscindibile da qualsiasi processo, vale a dire da qualsiasi sequenza esperienziale significativa.
Attraverso un giro apparentemente piuttosto ampio, allora, possiamo infine focalizzare il rapporto tra tempo e formazione.
Possiamo considerare come ogni genere di formazione sia un processo e precisare come per processo formativo possiamo intendere un insieme complesso di fenomeni relazionali, comunicativi, informativi e di contenuto sia oggettivo che tecnico, che interagiscono tra loro, dando luogo a modificazioni indirizzate verso obiettivi di acquisizione di nuove competenze.
Possiamo intendere la formazione come un processo di trasferimento di esperienza, dove la reciprocità relazionale tra chi forma e chi è formato sottintende e richiede una distanza di esperienza; chiamiamo tale distanza quantitativa e tale differenza qualitativa di esperienza tra adulto e non adulto a-simmetria relazionale, condizione affinché il processo di formazione abbia letteralmente luogo, possa cioè disporre di uno spazio interpersonale nel quale consistere.
A questo punto, il discorso si salda con quanto era stato accennato in proposito lo scorso aprile, e che si trova riportato – per chi volesse ritornarvi – nel n. 5 dei Quaderni di Gruppoanalisi.
Spesso – si diceva – vi è conflitto tra tempo della formazione e tempi istituzionali: i secondi vengono percepiti come inadeguati per quantità (generalmente il tempo è poco per farci stare tutto) e qualità (il tempo disponibile è mal organizzato, frammentato, tempo perso in partenza, prima ancora di essere vissuto).
Ogni processo umano intenzionato, cioè non casuale ma voluto, progettato, avviene in un tempo più o meno rigorosamente o rigidamente stabilito.
Tra tutte le esperienze formative, solo quella analitica è intenzionalmente priva di una fine temporale prestabilita; anche in ciò si riflette il senso della «cura» psicoanalitica come fondata – tra l’altro – sul rispetto conoscitivo dei «tempi» di elaborazione di chi si impegna in un’analisi. Il tempo analitico è scandito in sedute, che si ripetono con cadenza costante ed evocano gli aspetti rassicuranti delle ciclicità naturali cui si accennava all’inizio, favorendo quella regressione necessaria allo stesso prodursi del processo di analisi.
Al di fuori del setting analitico, tutti gli altri processi intenzionalmente formativi hanno un tempo definito anche nel termine. Non fa eccezione l’idea di formazione permanente, in quanto si riferisce alla possibilità di accedere, nel corso della propria vita professionale, a occasioni formative diverse e definite, allo scopo di mantenere costante il confronto e l’apprendimento professionali.
In tale prospettiva, la scuola, luogo per eccellenza dell’istruzione, della trasmissione culturale tra generazioni e dell’educazione sociale, è un’organizzazione al cui interno il tempo della pratica didattica è attualmente scandito piuttosto precisamente, mentre appare decisamente più indeterminato il tempo della preparazione docente, della programmazione, della verifica, del confronto tra adulti.
Nel nostro sistema di istruzione, gli insegnamenti disciplinari si alternano in dipendenza da un tempo cronologico che li contiene e li ritma.
Nella nostra esperienza di formazione con insegnanti e formatori, il fatto che i tempi istituzionali non vadano mai bene sorprende per la costanza con cui viene indicato come responsabile di disfunzioni formative.
Sappiamo di muoverci qui intorno a un punto delicato, come lo sono del resto i punti nei quali la percezione soggettiva si raccorda con le realtà istituzionali e organizzative.
Sappiamo anche che la posizione gruppoanalitica – che si caratterizza, tra l’altro, per l’astenersi dal fornire ricette semplici a conclusione di discorsi problematici – tenda a lasciare insoddisfatte le aspettative che genera.
Nella prospettiva antica secondo la quale «la necessità aguzza l’ingegno» o ricordando, in modo culturalmente più accreditato, che la mancanza è ciò che suscita conoscenza, pensiamo che per ottenere risposte soddisfacenti occorra innanzitutto sapersi e potersi porre domande interessanti.
Non è dunque sul versante risolutivo che si avvia questo discorso, bensì nel proporre all’attenzione degli adulti che oggi si trovano qui in vesti professionali differenti e accomunate dall’assunzione effettiva o prospettica di responsabilità di tipo formativo, la possibilità di riflettere sulla differenza radicale tra prospettiva temporale adulta e non adulta nella conduzione di processi di formazione.
Se è vero che l’adulto gode (o, volendolo, potrebbe farlo) di una condizione più esperta rispetto al non adulto, allora, nella sua veste di insegnante, formatore, educatore, terapeuta, ecc. può considerare se stesso come l’artefice e contemporaneamente il garante di quel singolo tratto dell’intero processo formativo che sta compiendo insieme con il discente.
È nella sua veste di artefice e garante del tratto di percorso che più o meno istituzionalmente gli è stato affidato che l’adulto può assumersi la responsabilità di governarlo autonomamente, considerandone le scansioni istituzionali non già come baluardi ostilmente impedenti un qualcosa di indefinito che si compirebbe in loro assenza, ma, più realisticamente, come confini temporali entro (e non contro) i quali contenere e tutelare il processo di formazione.
In altri termini, la consapevolezza della prospettiva temporale da parte dell’adulto che svolga una qualche funzione educativa, formativa, insegnante, favorisce il formarsi di un’analoga consapevolezza da parte di chi, per qualche verso, si trovi con lui impegnato nel proprio processo di formazione.
Come detto, siamo ben consapevoli della non linearità e della laboriosità effettiva di questa sorta di ribaltamento di prospettiva: da «vittima» delle persecuzioni dei tempi istituzionali ad artefice e garante di un processo con scansioni date; e non ne sottovalutiamo la portata.
Non per caso, infatti, ma per tentare di assumere a nostra volta ciò che andiamo dicendo, ci impegniamo nel tentativo di allestire contenitori formativi dove elaborare pian piano le sollecitazioni che periodicamente proponiamo.
Forse qualcuno si domanderà che cosa questo itinerario tra tempi diversamente vissuti e praticamente agiti abbia a che fare con un titolo che parrebbe riguardare più precisamente la scuola.
La questione dell’utilizzo istituzionale e professionalmente responsabile del tempo è trasversale: in essa, la scuola si caratterizza – come si è accennato – per una diffusa percezione di disagio da parte degli insegnanti rispetto ai propri tempi di lavoro.
La questione del tempo di lavoro – come più precisamente si evidenzierà nel lavoro di Luigi Spadarotto – inoltre, si presta a esprimere conflittualità di ruolo e confusioni istituzionali che con il tempo possono anche aver poco a che vedere.
Il tempo come capro espiatorio, insomma, che è anche discorso bloccato, privo di aperture problematizzanti.
Trovare forme e modi per imparare insieme a pensare il tempo piuttosto che perseverare nel patire il pensare al tempo è, in sintesi, il senso dello stimolo che si è inteso proporre attraverso questo lavoro.
Bibliografia
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Ceruti M., Lo Verso G. (a cura di), Epistemologia e psicoterapia, Cortina, Milano 1998
Maturana H. R., Autocoscienza e realtà, Cortina, Milano 1993 (ediz. orig. 1990)
Maturana H. R., Varela F. J., L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1987 (ediz. orig. 1984)
Mc Luhan M., Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1974 (ediz. orig. 1964)
Morin E., La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1986
Napolitani D., Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino 1987
Prattico F., La tribù di Caino, Cortina, Milano 1995
Prigogine I., La fine delle certezze, Bollati Boringhieri, Torino 1997 (ediz. orig. 1996)
Tiezzi E., Fermare il tempo, Cortina, Milano 1999
A. Gentinetta
Tempi dell’individuo e tempi del gruppo: esperienze in gruppi clinici
TEMPI DELL’INDIVIDUO E TEMPI DEL GRUPPO: ESPERIENZE IN GRUPPI CLINICI
Alma Gentinetta
Nel mio intervento parlerò di gruppi clinici, quindi di gruppi che hanno valenze di tipo terapeutico; alcune considerazioni tuttavia penso e spero possano risultare interessanti ed applicabili anche in gruppi diversi nei quali le varie figure professionali che oggi sono qui presenti si trovano a lavorare.
L’altro polo del discorso sarà la dimensione temporale: come entra la variabile temporale in un gruppo? Quali modificazioni introduce la consapevolezza di una risorsa e di un vincolo di tempo prestabilito? Quali intrecci si creano tra i tempi dell’individuo e i tempi del gruppo? Quali tempi per quali obiettivi?
Queste ed altre ancora sono alcune delle questioni intorno alle quali mi trovo a riflettere nella mia esperienza di conduzione di gruppi presso l’ ASL 3 di Torino, II Unità Modulare di Psichiatria.
Una prima considerazione che vorrei fare con voi si riferisce ad una constatazione che spesso sentiamo ricorrere nei vari luoghi di lavoro e che, fra le varie mancanze, lamenta frequentemente la mancanza di tempo. «Non c’è tempo sufficiente per…» «Se ci fosse il tempo..» Siamo insomma sempre di corsa, ma il tempo sembra non bastare mai: abbiamo tutti prima o poi un po’ la sensazione di vivere in lotta contro il tempo. Questa stessa corsa poi purtroppo spesso ci accompagna anche nella vita quotidiana, nella vita familiare, privata, a volte ci sembra una lotta persa in partenza, ma ineludibile.
In altre circostanze, al contrario, il tempo ci sembra insopportabilmente lungo, inconcludente, noioso, troppo.
Il fatto curioso poi è che razionalmente sappiamo bene che la questione sarebbe da porre in altri termini perché sappiamo che il tempo non è né tanto né poco, in quanto il tempo semplicemente «è». Il tempo diventa tanto o poco solo se lo poniamo in relazione a qualcos’altro, come ad esempio un’attività, uno stato d’animo o gli obiettivi che ci si propone di raggiungere: quante cose si devono fare in un determinato tempo o quanto tempo occorre per raggiungere determinati obiettivi.
Sembrano considerazioni ovvie e banali, ma in realtà il tempo sembra tendere a sfuggirci di mano, a diventare esterno ed estraneo, ad usarci, invece di essere noi a poterne disporre e ad usarlo. Questo implica quanto sia importante dotarsi di strumenti o di accorgimenti per non perderne il controllo, per poterlo gestire.
Quest’attenzione diventa poi particolarmente necessaria quando il tempo individuale deve raccordarsi con il tempo degli altri, in un tempo di gruppo.
Una delle funzioni del conduttore di un gruppo è quella di essere il custode e qualche volta anche l’amministratore del tempo del gruppo e questa funzione è necessaria non per pignoleria o per un rigore fine a se stesso, ma proprio perché il tenere ferma una delle cornici portanti del setting, qual è quella temporale, è una delle condizioni che consentono il processo di lavoro del gruppo.
Questa considerazione è valida per tutti i tipi di gruppo, ad esempio anche oggi, qui, la figura del chairman assolve, tra le altre, a questa funzione di garante e custode del tempo di questo gruppo, dovendo, ad esempio, far rispettare i tempi di ogni relazione, delle pause, delle altre varie fasi del programma per consentire al gruppo di svolgere il percorso di lavoro della giornata. Si tratta, tra l’altro di porre attenzione all’intreccio costante tra i tempi dei singoli e il tempo di tutto il gruppo e su questo punto vorrei fare alcune riflessioni.
Parlando di gruppo facciamo spesso riferimento ad una definizione che vede il gruppo come qualcosa di diverso dalla somma degli individui che lo compongono.
In questo senso il gruppo è contemporaneamente sia qualcosa «di più» sia qualcosa «di meno» di quell’ipotetica somma. È indubbiamente di più per l’arricchimento, la creatività, la circolazione di pensieri, di emozioni, di esperienze, di risorse che la dimensione gruppale può attivare e che l’individuo può provare e sperimentare, ma può anche essere sentito dal singolo come qualcosa di meno per le limitazioni, i vincoli, i vari «aggiustamenti» che richiede ad ogni partecipante.
La dimensione temporale può rientrare fra questi vincoli e il continuo adeguamento che richiede non è sempre facile, né automatico. A volte lavorare in gruppo comporta per l’individuo dover rallentare o fermarsi ad aspettare gli altri, oppure dover andare avanti velocemente là dove si sarebbe soffermato ancora un po’… Soprattutto all’inizio il passo di ciascuno è molto diverso da quello dell’altro e ci vuole del tempo per trovare una cadenza che risponda in qualche modo ad un ritmo condivisibile, anche se farà sempre parte della ricchezza e della dinamica del gruppo la diversità dei tempi e dei modi dei singoli componenti.
Diversità di tempi e di modi rendono variegato anche il panorama stesso dei gruppi che possono essere efficacemente impostati con setting diversi se si tengono sempre ben presenti gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Farò riferimento ad alcune mie esperienze di conduzione di gruppi per dare un breve cenno di vari assetti che il gruppo può assumere, in particolare per quanto riguarda la dimensione temporale.
Il gruppo gruppoanalitico è un gruppo condotto da uno psicoterapeuta gruppoanalista in una dimensione terapeutica analitica. Nel gruppo sono presenti persone che intendono percorrere un proprio percorso analitico.
Il gruppo non è solo una cornice, uno spettatore o un facilitatore per l’individuo, nella nostra impostazione teorica e tecnica il gruppo è un componente essenziale e attivo dell’analisi che avviene attraverso il lavoro del gruppo.
Nel gruppo ogni partecipante inizia avendo di fronte a sé un percorso e come avviene anche in una relazione analitica duale è implicito che ad un inizio corrisponderà una fine, una conclusione, ma un tempo non è prestabilito, non è dato in partenza. Il tempo sarà quello necessario e necessariamente sarà un tempo lungo.
Nel gruppo ogni paziente fa il proprio percorso rispettando quindi i propri tempi, i propri itinerari interiori, in relazione con i propri compagni di viaggio, ma la conclusione avviene individualmente. Ogni partecipante elabora con il resto del gruppo la propria conclusione. Il conduttore, preparando opportunamente il gruppo, nei tempi che ritiene più opportuni, inserirà altri partecipanti in sostituzione di coloro che terminano.
Gli obiettivi di un’analisi sono obiettivi trasformativi che, noi diciamo, richiedono una conoscenza ed un riattraversamento delle proprie matrici personali profonde, della propria gruppalità interna e questo processo di cambiamento trasformativo comporta tempi lunghi e non definibili a priori, di elaborazione e di costruzione.
Altri gruppi nascono con aspettative, obiettivi o esigenze diversi e in queste situazioni sia la composizione del gruppo, sia la variabile temporale possono assumere forme diverse.
Vorrei soffermarmi ora su alcune esperienze di gruppi che conduco presso la II Unità Modulare di Psichiatria dell’ASL 3, che è un Servizio di Psichiatria territoriale per adulti.
Il tempo in Psichiatria si è connotato storicamente come il tempo della cronicità: la patologia stessa ha indotto questa visione del tempo, inoltre l’istituzione, di per sé, ha spesso modalità più conservative che innovative e queste modalità temporali di cronicità e di staticità, riverberandosi e amplificandosi a vicenda, hanno portato, tra l’altro, all’istituzionalizzazione dei pazienti negli ospedali psichiatrici la cui chiusura, problematica e faticosa, e in alcune situazioni non esente da carenze e da errori, ha comunque riportato il problema delle dimissioni, della durata dei ricoveri, della presa in carico ecc., problemi che sono diventati oggetto di rinnovata attenzione e di valutazione. La comparsa di nuove terapie, farmacologiche e non, l’apertura dei servizi territoriali hanno contribuito all’irruzione del tempo nella presa in carico dei pazienti, sia in una impostazione diagnostica più orientativa e soggetta a verifiche, sia nella prospettiva, per i pazienti, di un percorso riabilitativo e risocializzante.
L’attenzione dovrebbe essere sempre più posta ad una presa in carico individualizzata sia nei modi, sia nei tempi e in questo senso si dovrebbe porre una seria riflessione sul tempo d’intervento «terapeuticamente utile», come dice F. Fasolo, per ogni paziente. Ne deriva inoltre la necessità di dotarsi di modalità, di strutture e di strumenti più variegati e flessibili che possano rispondere più adeguatamente ai diversi percorsi che ogni paziente può richiedere e ai diversi momenti che può attraversare.
Tutto ciò costringe a pensare e a ripensare più volte ad ogni paziente, restituendogli una storia in divenire, non pesantemente appiattita, ma nella quale è possibile una costellazione di eventi.
In questa prospettiva un gruppo particolarmente interessante è quello che conduco al Day-Hospital, una struttura intermedia, nella quale i pazienti sono presi in carico per tempi variabili da una-due settimane a uno – due mesi.
Si tratta di persone che attraversano un momento particolarmente delicato per l’aggravarsi dei sintomi, o per difficoltà al rientro in famiglia, o a casa propria, dopo un periodo di ricovero, o ancora persone che necessitano di osservazioni e cure in una cornice più contenitiva e controllata di quella ambulatoriale, ma la situazione non è così acuta da richiedere un ricovero in reparto.
Un elemento caratterizzante la presa in carico in D.H. è che ogni paziente ha un proprio programma e stipula una sorta di contratto con i curanti: la permanenza è solo diurna e può variare da alcune ore, nelle quali segue alcune attività, a tutta la giornata e tale programma è rivisto e rivalutato frequentemente durante il periodo di ricovero in D.H.
Conduco il gruppo con un’educatrice, Cristina Albera, che è anche un’allieva della nostra Scuola di Formazione.
Il gruppo si svolge una volta la settimana, per un’ ora, un tempo che abbiamo ipotizzato prima e verificato poi, rappresentare per la maggioranza di questi pazienti una durata generalmente tollerabile e sufficientemente produttiva.
È un tempo che in altri contesti sembrerebbe scarso, ma noi lavoriamo con persone in situazioni delicate, che assumono farmaci, e per le quali lo star seduti, senza fumare, parlando e ascoltando ciò che dicono gli altri richiede una certa fatica.
Il gruppo non è obbligatorio, viene presentato e proposto nella fase di programma e viene ricordata e sollecitata la partecipazione. Accade così che il gruppo sia composto da un nucleo più stabile, intorno al quale ruotano le persone che hanno o un tempo di ricovero più breve oppure non si sentono di partecipare al gruppo tutte le settimane.
Per la fluttuazione dei partecipanti, ogni seduta di gruppo si configura per un lato come una tessera di un percorso, aspetto questo tipico di un gruppo clinico, ma dall’altro lato è anche come se ogni incontro fosse un gruppo a sé e in questo senso deve ripercorrere, con la guida del conduttore, nella sua vita di un’ora, in modo quindi concentrato, le tappe che altri gruppi percorrono in tempi ben più lunghi, vale a dire una fase iniziale, una fase centrale di lavoro e una fase di conclusione.
Nella prima fase si accolgono le nuove persone, vengono ricordati alcuni aspetti riguardanti gli scopi, le regole e le «modalità d’uso» del gruppo. Fondamentalmente il gruppo è un tempo e un luogo nel quale si possono scambiare pensieri, impressioni, problemi, domande, riflessioni… E partono i primi interventi.
Spesso le comunicazioni d’apertura sono molto dense, forti, apparentemente scollegate fra loro; ho a volte l’impressione di sentire un corpo smembrato nel quale ci sono delle parti fluttuanti che si aggregano, anche in modo bizzarro. Sono presenti dei «grumi emotivi» molto forti, collocati in dimensioni di impossibilità, scacco esistenziale, impotenza, fallimento, densi da attraversare. Dalla parte del conduttore è necessario procedere con delicatezza, la mente del conduttore deve diventare prima di tutto un contenitore, per proporre un contenimento, una cornice che renda ciò che è stato espresso un po’ più «pensabile».
Spesso esplicito quindi un tema, un filo, un’emozione che sento circolare in quel gruppo, in quell’apertura, intorno al quale il gruppo, se si riconosce, può aggregarsi, può fermarsi a riflettere, può lavorare. A quel punto il gruppo stesso diventa contenitore di se stesso.
Siamo nella fase centrale del percorso e succedono cose molto interessanti, i collegamenti, le connessioni tra i contenuti sono spesso di una profondità che non finisce di stupirmi e anche le comunicazioni tra i partecipanti si intrecciano spesso in modo vivace, attivando a volte anche le persone più «lontane», distogliendole da pensieri molesti e da modalità confabulatorie. A volte cade il silenzio e anche questi momenti vengono colti in modi diversi dai partecipanti: proprio in un gruppo recente un paziente ha comunicato la sua incapacità a sopportare il silenzio, anche brevissimo, la sua voglia di star zitto, ma l’impossibilità di tacere. La condivisione di questo problema da parte di altri, la difficoltà, invece, espressa da altri ancora ad uscire dal silenzio hanno portato una serie di ricordi significativi rispetto ai quali sono emerse le differenze tra il dialogo, la discussione e il litigio «sordo» all’altro, la sensazione di «esserci» per qualcun altro o di sentirsi «trasparenti» per gli altri, quindi vuoti.
Mentre il gruppo lavora così, nella fase centrale, io incomincio a pensare alla conclusione, alla chiusura del gruppo. Allora gli aspetti emotivi più forti che stanno circolando vengono ricondotti e intrecciati maggiormente con il registro di una logica più concreta, il gruppo viene lentamente riportato al tempo «qui e ora», allo spazio presente anche esterno al gruppo, all’ utilizzo, anche pratico, delle riflessioni che il gruppo ha fatto. Si riconnette ciò che è avvenuto in quell’ incontro con le sedute precedenti, ci si dà l’appuntamento per la settimana successiva, si ricompone il gruppo ridandogli una storia che ricollega passato, presente e futuro, così come si è parlato del passato, del presente e del futuro dei partecipanti.
Infatti uno degli obiettivi di questo gruppo, con pazienti gravi, è la possibilità di sperimentare, attraverso il gruppo, le dimensioni temporali.
Vi porto un altro esempio: un paziente, giovane, inizia il gruppo raccontando della sua sofferenza e la sua rabbia nel sentire la propria vita spezzata. Qualche anno fa aveva un lavoro, una fidanzata, era bravo in uno sport, poi la crisi e la sua vita si è «rotta». Diceva, con sofferenza, che sa che non tornerà più come prima, ma questo sarebbe il suo desiderio: riprendere ad essere quello di prima della crisi. Il gruppo ha lavorato su questa e su altre comunicazioni, verso la fine questo stesso ragazzo ha espresso, quasi con una punta di stupore, che forse ciò che dovrebbe fare non è tornare come prima perché «se qualcosa non ha funzionato, se sono saltato, è forse perché l’immagine che avevo di me non era giusta. Dovrei fare un passo ancora più indietro per capire qualcosa di più e non arrivare lì, forse dovrei essere diverso da prima».
Mi sembra una considerazione molto importante, è come se questo ragazzo si chiedesse di quale passato ha nostalgia, di quale passato si deve riappropriare, un passato però che può non essere solo ripetizione e chiusura in se stesso, un passato che può riacquistare un altro senso se collegato al presente e in vista di un futuro.
Quale passato per quale futuro: sembra capovolgersi così una domanda che posta in termini inversi non gli dava possibilità d’uscita.
Un altro modello di lavoro di gruppo è un’esperienza che conduco in sede ambulatorialecon la collaborazione di un’educatrice, Cristina Albera, e di un’infermiera professionale, Caterina Finardi.
Si tratta di gruppi chiusi, a termine.
Sono gruppi chiusi perché i partecipanti (7/8) sono sempre gli stessi per tutta la durata del gruppo, quindi iniziano e terminano tutti insieme, e sono «a termine» perché il tempo è fissato in otto incontri (a cadenza settimanale, di un’ora e trenta ciascuno).
I partecipanti sono persone che si sono rivolte al Servizio, e nel corso dei primi colloqui di accoglimento con medici o psicologi hanno portato situazioni difficili, a volte anche sintomatologie gravose, invalidanti la vita lavorativa, sociale, di relazione, ma non è presente una patologia psichiatrica.
Scopi di questo gruppo sono: la chiarificazione della domanda portata, l’avvicinarsi a dare un senso in chiave psicologica ad alcuni disturbi o sintomi presentati, l’avviare un processo di maggior consapevolezza, il riattivare parti di sé dimenticate e abbandonate e, attraverso lo scambio con gli altri, cogliere nuove prospettive rispetto a situazioni problematiche portate come senza via d’uscita.
Anche in questi gruppi la dimensione temporale diventa un elemento cruciale perché il gruppo è calato fortemente nel tempo, il tempo calendariale degli incontri è un dato con il quale il gruppo si trova presto a «fare i conti».
Dopo i primi due – tre incontri qualcuno incomincia a rendersi conto che il tempo scorre e intorno al giro di boa del quarto incontro qualcuno verbalizza, in vario modo, che si incomincia il conto alla rovescia e il gruppo si interroga sul percorso svolto e su quanto ci sarebbe ancora da fare, da capire…
A quel punto, generalmente, tutti hanno acquisito qualche consapevolezza in più su se stessi, ma il problema che si pone è come utilizzare queste nuove conoscenze, e soprattutto come farcela poi da soli…Così l’aspetto della fiducia in se stessi e della ricerca delle proprie nuove risorse è uno dei temi che ricompare nella seconda metà di tutti i gruppi.
In queste situazioni possiamo dire che la proposta di un percorso a termine sbocca in qualche modo e attiva abbastanza rapidamente alcuni processi sia nel gruppo, sia nell’individuo.
Ogni partecipante, poi, nel corso di un colloquio individuale riporterà altre riflessioni sull’esperienza e si valuterà, eventualmente, l’opportunità di intraprendere altri percorsi di supporto o di psicoterapia.
Un filosofo, penso Bergson, definiva il tempo come «distensione dell’anima», rivisitato in termini diversi, trovo interessante e utile pensare al tempo come «distensione della mente». Vale a dire come quella possibilità della mente di distendersi da – tra una categoria temporale e l’altra: da e tra passato – presente – futuro.
In un testo di Umberto Galimberti, Il corpo, l’autore parlava del tempo e sottolineava come a volte il tempo sembra «raggrinzito» tutto in un punto. Spesso ho avuto questa sensazione, o percezione, di fronte ad alcuni pazienti che parlano di sé.
A volte il tempo in una persona è patologicamente concentrato tutto in una sola dimensione. Può essere il solo presente a dominare la scena, un presente che, privato di un passato e orbo del futuro non può che essere vissuto come un punto inerme, vuoto, senza senso. Mi sembra così il tempo del depresso che non ha desideri, che non pensa più di poter trovare gusto e piacere in nulla, che si sente in un tunnel nel quale non si vede in avanti via d’uscita, ma spesso neppure si vede più alle spalle il punto d’ingresso, non c’è senso e non c’è memoria.
Altre volte il tempo mi sembra sia tutto congelato nel passato e allora il presente e il futuro non possono che essere una riedizione di questo passato, una riedizione senza fine, mai sufficientemente appagante, che rilancia continuamente se stesso in una replica all’infinito, nella quale il personaggio prende il sopravvento sull’attore ed è già tutto dato, non c’è niente di nuovo, di originale, se non qualche minima variazione sul tema.
Il tempo può anche condensarsi tutto nel futuro: in un immaginario, spesso grandioso, in un’immagine di sé che non può tollerare verifiche dei limiti e che può, ad esempio spingere su una strada di doveri, fatiche e dolori che poco lascia sia alla realtà contingente, sia all’ordine del piacere, per chiudersi in un’ansia divorante e mai appagata.
La possibilità di comprendere, nel senso di tenere insieme e di connettere, nel senso di dare collegamento e senso al proprio passato, presente e futuro si pongono allora come obiettivi terapeutici non di poco conto.
Si tratta di uscire da un tempo senza varazioni, quindi senza tempo, per entrare nelle dimensioni temporali della vita, che può avere evoluzioni, proprio perché scorre, e che può «essere» proprio perché «passa».
Chiamerei questo processo lo «scongelamento di nuclei temporali immobilizzati» e questo processo avviene nel gruppo quando la storia di ogni partecipante riacquista una prospettiva: il presente, con l’aiuto degli altri diventa più leggibile e dà un senso, a volte nuovo, al passato e il futuro si apre come possibilità che posso costruire, che può venirmi incontro e alla quale posso andare incontro.
Il fissare un tempo, per un gruppo, come dicevo all’inizio, è in stretta relazione con gli obiettivi che ci si pone ed è importante che il conduttore tenga questo elemento sempre ben presente.
Un gruppo come quello di cui vi ho parlato, che si sviluppa in otto incontri, ad esempio, è un grosso attivatore ed un potente acceleratore, ma il conduttore non deve lasciarsi prendere la mano. Vale a dire che deve avere sempre ben presente qual è il livello di elaborazione al quale può portare il gruppo e che tutti i partecipanti possono condividere e a quello deve attenersi, non cadendo in una «vis terapeutica» o interpretativa o quant’altro che potrebbe rivelarsi iatrogeno.
A volte la tentazione si presenta, ma a questa il conduttore non deve cedere, inoltre, più il gruppo è breve, più il conduttore deve fare attenzione al fatto che i partecipanti hanno il diritto e lui ha il dovere di fare in modo che tutti i componenti escano ogni volta dal gruppo sentendosi, direi «contenuti» e «composti» o «ricomposti», certo forse con qualche interrogativo in più, qualche nuova curiosità e qualche dubbio riguardo ad alcuni aspetti di sé o degli altri. È tuttavia importante, ribadisco, che il conduttore riesca a tarare, nel senso di mantenere, o a volte riportare il gruppo al livello di elaborazione e di approfondimento consono, tollerabile e utile a tutto il gruppo, e questo è necessario non solo quando i pazienti sono gravi, ma anche quando il percorso del gruppo per gli obiettivi e i tempi che si è dato, non consentirebbe una sufficiente elaborazione di emozioni o di contenuti più profondi che rischierebbero di non trovare sufficiente spazio per essere elaborati nel gruppo stesso.
Accade di notare che alcune persone, nel corso degli otto incontri, manifestino o maturino capacità introspettive, di insight, ed una motivazione ad un lavoro più profondo, ma non è in quella situazione che ciò può avvenire: piuttosto, terminato il lavoro nel gruppo, proponiamo a questi pazienti un percorso psicoterapeutico orientato analiticamente.
Un’esperienza che molti pazienti dicono di aver vissuto al termine del gruppo è la possibilità di aver trovato un tempo protetto nel quale potersi fermare, un tempo esonerato dal giudizio, un tempo nel quale il proprio malessere è stato accolto e ha trovato diritto di cittadinanza. Il non doverlo negare, superare, aggirare ad ogni costo, ma il darsi del tempo per interrogarlo ha consentito a molti la possibilità di apprendere un modo nuovo di mettersi in ascolto di se stessi, riscoprendo così anche nuove risorse disponibili, nuovi desideri, nuovi progetti, nuovo tempo.
Nel suo testo, Psiche e techne, edito da Feltrinelli nel marzo ‘99, Umberto Galimberti in più punti tratta del tempo.
Il secondo capitolo, che intitola «Il tempo che invecchia» , è suddiviso in due parti: «Il tempo della natura» e «Il tempo della tecnica».
Nella prima parte l’autore si riferisce al tempo ciclico, che è il tempo della natura, nel quale le cose avvengono, finiscono, la fine coincide con il fine delle cose, e poi le cose riprendono, ritornano, uguali a quello che erano state, in un tempo che già Nietzsche chiamava di «eterno ritorno dell’uguale».
Nel tempo ciclico, dice Galimberti, « non c’è rimpianto e non c’è attesa. Non c’è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c’è nulla da attendere, se non ciò che deve ritornare. All’interno di questa temporalità non c’è progetto tecnico che possa imporsi, perché non c’è futuro da inventare, apertura dischiusa da percorrere, orizzonte al di là dell’orizzonte.»
Nella seconda parte Galimberti ripropone, dal Prometeo incatenato di Eschilo, il mito di Prometeo che strappa il segreto del fuoco e della tecnica agli dei per farne dono agli uomini della natura, «indifesi e muti».
Per poter fare questo dono, però, Prometeo doveva fare un altro dono, doveva «far precedere il dono di un’ altra temporalità senza la quale né il fuoco né la tecnica avrebbero senso. L’uno e l’altra, infatti, sono in vista di uno scopo che né il cielo né la terra, percorsi dal tempo ciclico, possono ospitare.»
L’autore ricorda che in greco «skopos» significa sia «colui che osserva e sorveglia» sia «l’oggetto su cui si fissano gli occhi», «il bersaglio», «la meta». Avere uno scopo quindi significa « avere anticipatamente in vista qualcosa», «prevedere», e quindi «progettare».
«Prometeo è colui che pensa (methéos) in anticipo (pro).»
Continua Galimberti: «… la temporalità inaugurata da Prometeo non guarda il passato, ma il futuro o, come dice Eschilo: il tempo che invecchia, regolato non più dalla figura del ritorno, ma da quella del perseguimento del bersaglio anticipato nel futuro.»
L’introduzione della visione di un obiettivo, di un progetto nel futuro porta con sé anche la visione di una possibilità di fallimento, crollano le certezze del tempo ciclico, si apre la dimensione dell’aleatorietà, delle molteplici possibilità, compresa quella della delusione, della rinuncia e in ultima istanza quella dell’invecchiamento, della morte.
A questo riguardo, Galimberti osserva che « Prometeo conosce il destino dei mortali e perciò, insieme alla tecnica, insieme alla memoria «madre di tutte le tecniche», porta in dono agli uomini un farmaco senza il quale ogni progetto si estinguerebbe sul nascere:
CORO: Nei dono concessi non sei magari andato oltre?
PROMETEO: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze.
CORO: Un grande giovamento hai così donato ai mortali.»
L’autore commenta che « la cieca speranza che insieme alla tecnica Prometeo dona all’uomo è l’idea di una vita non più regolata sul modello biologico in cui la crescita e la maturità portano inevitabilmente alla senescenza e alla morte.»
Il tempo ciclico della natura è così rotto dalla tecnica che dà facilmente l’impressione e l’illusione di poter resistere agli effetti del tempo, di collocarsi quindi in una dimensione di crescita permanente, «quel permanente che, crescendo su se stesso, è riconoscibile come progresso».
Il rischio del tempo della tecnica è quindi quello di un tempo nel quale non c’è più un senso, se non quello di procedere, di andare avanti, il progresso è cieco, come cieche sono le speranze.
Gli uomini sono usciti dal tempo ciclico, che era quello degli dei, per ritornarvi, attraverso le cieche speranze, potremmo anche dire, le illusioni.
Mi sembrerebbe importante fermarci a riflettere, proprio per il lavoro che noi facciamo, in relazioni di aiuto con persone sofferenti, quale scarto, quale spazio ci sia tra il farci portatori di progresso, di illusioni, cieche, e il farci coltivatori di speranze che vedono, o che cercano di vedere, non rinunciano a vedere, e che quindi non perdono il senso, che sono calate nel tempo che scorre e che invecchia.
Forse possiamo chiederci se il terreno coltivabile, con i nostri pazienti, per dei progetti, per delle speranze, ha a che fare con un tempo «disteso» e «scongelato» nel quale si può vedere proprio perché si tiene conto del passato, lo si conosce, lo si riattraversa, lo si utilizza, nel presente, ma con lo sguardo un po’ più in là, uno sguardo disposto ad avvistare qualcosa che dal futuro li guarda e li riguarda perché acquista, per loro un senso, inclusa la consapevolezza di assumersi anche il rischio del fallimento, perché il risultato non è garantito.
Un tempo, inoltre, che non solo invecchia, ma nel quale si invecchia.
Uscire dalla cronicità, dal tempo ciclico o da un tempo congelato non dovrebbe per noi coincidere con il cadere nell’ illusione o in una modalità ciecamente consolatoria, vorrebbe piuttosto dire poter stare, con i nostri pazienti, in una posizione che coglie ciò che il tempo è e ciò che offre: un limite e, contemporaneamente, una risorsa.
L. Spadarotto
Tempo e organizzazioni
TEMPO E ORGANIZZAZIONI
Luigi Spadarotto
PREAMBOLO
Il tempo nelle organizzazioni, soprattutto quelle produttive, è la risorsa cruciale per eccellenza. In quegli ambiti il valore di cosa si fa è giudicato dal cronometro.
Infatti, quanto più consistente è la quantità di merce o di servizi, prodotta o dispensati nell’unità di tempo, tanto più elevata e apprezzata è l’efficienza dello stabilimento o della società commerciale di cui analizziamo le realizzazioni.
Tuttavia la faccenda si complica se alla consistenza di quanto è prodotto (i fatidici «volumi») si deve abbinare la qualità dell’esecuzione o l’appropriatezza della prestazione.
Un inatteso dilemma, o peggio una stringente ingiunzione, si affaccia prepotente all’esterrefatto esecutore. Si vuole, immantinente, che egli sia sbrigativo, rapido, ma nel contempo provetto e inappuntabile.
«Chi va piano va sano e va lontano» è adagio di altri tempi, allorquando, paradossalmente, alla vita breve faceva riscontro un andirivieni assai poco assistito da mezzi di locomozione artificiali.
«Chi ha tempo non aspetti tempo», traduceva, fino a pochi lustri or sono, la sollecitudine della madre che raccomandava al figlio negligente di non «sprecare» in baggianate la propria angusta giovinezza.
Oggi al tramonto della civiltà industriale e nel pieno fulgore di quella soggiogata dalla telematica, fare in fretta, adoperando sempre meno risorse per costruire un bene materiale o per allestire un servizio senza che entrambi presentino magagne (ossia «Fare di più, meglio, con meno»), è l’imperativo categorico brandito dalle inesauste aziende competitive.
Difficilmente però vorremmo che siffatto granitico slogan fosse incluso nel repertorio nostalgico dei proverbi lasciatici dalla tradizione popolare.
TEMPO E LAVORO ORGANIZZATO
Astraendo dal frenetico incitamento aziendale ad «ottimizzare il tempo», questa ineffabile e impalpabile risorsa, il cui consumo salta agli occhi con l’inesorabile ticchettio dell’orologio, è anche alla base di almeno due antitetici atteggiamenti psicologici.
Col primo atteggiamento il tempo viene percepito riduttivamente come rinvio ad una scadenza ineludibile; con il secondo il tempo è assimilato al luogo propizio per l’impresa.
Il tempo che passa è, dunque, da un lato vissuto alla stregua di uno strumento di tortura. Ad ogni rotazione completa delle lancette si stringe infatti la morsa che attanaglia l’esecutore o il supervisore, entrambi vincolati dalle clausole contrattuali.
Dall’altro esso è accolto come la concessione suprema offerta dalla vita per attuare le nostre possibilità, rincorrere i nostri progetti, affermare la nostra identità.
Nella concezione che ruota, o sarebbe meglio dire che vortica, attorno alla scadenza il tempo che passa scandisce l’ansia per l’opera ossessivamente immaginata nella sua paventata incompiutezza (non sembri, quella appena tratteggiata, una situazione metaforica o melodrammatica. La pretesa, soprattutto da parte di soggetti economici potenti, di ottenere dai loro fornitori prestazioni ineccepibili in tempi ristretti e possibilmente a costi competitivi, è evenienza pressoché quotidiana e tale da guastare, dove esista, il piacere del lavoro).
Nella rappresentazione della dimensione che privilegia l’edificazione di un’impresa all’interno di una inevitabile cronologia, il tempo è al servizio dell’azione, la corrobora, la rende fattibile e conclusa.
Al di là delle interpretazioni dettate dall’indole personale (il bicchiere può essere mezzo pieno o mezzo vuoto; la vita è, secondo i pareri, troppo breve per compimenti degni o sufficiente per godere dei suoi beni terreni) il tempo è «il costituente per eccellenza della esistenza umana».
Lo si può ingorgare di impegni lavorativi o pubblici per sottrarsi ad ambiti sociali imbarazzanti. Oppure lo si può scialare indifferenti alle esortazioni della morale comune o alle prescrizioni e agli obblighi della vita associativa.
Sempre il tempo è comunque sia l’arbitro delle nostre predilezioni e costrizioni.
E la pretesa assurda, sebbene costantemente dichiarata, di volere espandere il tempo per incastrare le esperienze eccedenti le incombenze rese obbligatorie dalle nostre appartenenze sociali, ci dà il segno dello squilibrio in cui siamo consapevolmente caduti.
LA MISURA DEL TEMPO NELLA REALTÀ LAVORATIVA
È noto soprattutto negli ambienti aziendali che l’uso ottimale del tempo sia connesso alla capacità di anticipare gli eventi o di distribuire cronologicamente le azioni ritenute appropriate in vista dell’ottenimento di un risultato futuro.
Sia la previsione, sia la programmazione possono dirsi stratagemmi per affrontare in maniera sistematica il futuro con il suo carico a volte insopportabile di incertezza.
Queste operazioni sono rese possibili, senza scadere nelle elucubrazioni di varia estrazione, partendo da una accurata cognizione di ciò che è accaduto e accade.
Se badiamo a quanto tempo abbiamo concretamente a disposizione nella dimensione occupazionale, vedremo che, stando all’interno di un’approssimazione giustificata dal tenore di queste riflessioni, la vita lavorativa, ormai fissata in 40 anni, è di 60.000 ore, reputando sensato pensare di essere occupati in attività produttive per circa 1500 ore l’anno.
Ogni anno però contiene 8760 ore e poiché la vita media è attestata sui 70 anni, le ore dell’intera nostra vita diventano 613.200. È facile calcolare che la durata in ore del periodo dedicato al lavoro sistematico è a mala pena 1/10 dell’intera nostra esistenza.
Tuttavia la constatazione statistica non è, come sanno fin troppo bene le persone assoggettate a lavori usuranti o insoddisfacenti, per nulla sufficiente ad ammorbidire la sensazione di disagio, cronologicamente dilatato, che l’esperienza di lavoro snervante procura loro.
Assistiamo inoltre, oggi più che mai, a fenomeni inquietanti e contraddittori, come l’assenza di finalizzazione del tempo per mancanza di scopi sensati e il furto indebito di tempo perpetrato da un numero sempre maggiore di organizzazioni a svantaggio di quei dipendenti costretti con la minaccia del licenziamento a permanere operosi nelle sedi lavorative oltre il tempo legale o contrattuale.
Il tempo come vuoto e beffardo contenitore è inoltre condizione che induce ignavia e regressione. L’assenza di stimoli a causa di una qualche forma di emarginazione inculca disabitudine all’impegno produttivo, inaridimento della immaginazione aggressività immotivata, ecc.
Mentre lo spazio sembra dominabile ingobrandolo di oggetti o segnandone i confini con i contrassegni di una qualche signoria, il tempo invece non si può sottomettere o ammirarne, di poi, la faticata conquista. Nei confronti del tempo possiamo soltanto operare delle scelte. Lo possiamo usare in un modo piuttosto che in un altro, ma, consumatone l’impiego prestabilito, è invariabilmente perduto per sempre.
TEMPO E TERMINOLOGIA MANAGERIALE
In azienda un dilemma cronico, nonostante gli innumerevoli artifici escogitati dalla dottrina manageriale per eluderlo, è quello tra il tempo da usare per la previsione, la progettazione, la programmazione, la preparazione (impegno spesso considerato ozioso dai pragmatisti), e il tempo speso per far fronte alla attività corrente o all’emergenza.
Perfino chi è stato formalmente dedicato a ricoprire il ruolo tecnico precostituito del pianificatore, si trova, ironicamente e ad ogni piè sospinto, ad affrontare quelle «indecidibili» alternative. Vi è immancabilmente un’imprevista «urgenza» che scaccia «l’importanza».
In ogni caso, di là dalle contraddizioni sanabili solamente disponendo di ampia discrezionalità sull’uso delle risorse, si afferma con risolutezza che la programmazione è essenziale se non si vuol essere condizionati dai programmi altrui.
Battere sul tempo il concorrente significa godere in maniera esclusiva, seppur momentanea, dei vantaggi commerciali derivanti dall’anticipo con cui il proprio prodotto è stato immesso nel mercato.
Informare in tempo significa mobilitare le potenzialità esistenti in un uomo o in una macchina in concomitanza alle necessità del loro uso.
Evitare lungaggini e ritardi serve per sincronizzare la pluralità degli apporti specialistici che concorrono alla realizzazione di un esito auspicato.
La prosa organizzativa sul tempo non è circoscritta al mero orizzonte della redditività aziendale. Ormai è diventata struttura espressiva dominante per promuovere l’efficienza ovunque quest’ultima sia esperibile e realizzabile.
Il tempo dei prodotti informativi non è più sequenziale ma «reale». Ogni porzione trascorsa di tempo deve aver prodotto «valore», ossia aver generato un’utilità immancabilmente soppesata con la bilancia economica. Nel tempo cosiddetto reale l’attività non è univoca, esclusiva. Essa è forzata a convivere con una pluralità di azioni dalle quali poter trarre un imprescindibile guadagno di opportunità.
Per questo mentre si guida l’automobile si può telefonare col cellulare o ascoltare musica o imparare una lingua mediante un registratore portatile; mentre si guarda per diletto la televisione su un canale si può saltare su un altro per essere informati sull’andamento dei titoli di Borsa; correndo per allenarci con le cuffie in testa possiamo ascoltare la radio o una qualsiasi registrazione sonora che ci interessa.
L’ambizione di saturare il tempo in modo che nemmeno un minuto trascorra «inutilizzato» sciorina alla lunga effetti imprevedibili e indesiderabili. L’ossessivo e generalizzato ricorso ad un’unica fonte informativa (per esempio un sito internet) provoca l’intasamento della linea e il conseguente stallo che paralizza la comunicazione. In macchina si può telefonare e ascoltare musica ma non evitare gli immani ingorghi (che fanno sprecare tempo proprio per aver cercato di fare in fretta) che si formano con la coincidenza dei terminali d’arrivo degli automobilisti.
UN QUADRO DI RIFERIMENTO PER LA GESTIONE MEDITATA DEL TEMPO
L’ansia di accelerare l’attività lavorativa, e di abbinarla contemporaneamente ad altre con essa complementari, è la parossistica strategia su cui si incentra la moderna competitività delle imprese post industriali.
Il problema dell’uso oculato del tempo, specialmente per la posizione dirigenziale cui compete di operare decisioni in condizioni di incertezza, si affronta nella formazione manageriale in rapporto a due aspetti vitali.
– La capacità e la possibilità, da parte del decisore, di dilatare il periodo di intervento diretto sui problemi organizzativi.
– La disponibilità alla delega nei confronti dei propri collaboratori
Riconosciuta l’importanza di questi due fattori si intravedono, almeno per ciò che attiene all’esperienza di un Capo all’interno di una Istituzione, quattro possibilità estreme e paradigmatiche:
1 – Mantenimento al minimo contrattuale della propria presenza nella Istituzione delegando ai collaboratori la maggior parte delle incombenze.
2 – Estensione della propria presenza al lavoro ben oltre l’orario straordinario legalmente consentito con il massimo accentramento delle attività di competenza ed eventualmente anche di quelle formalmente sovraintese.
3 – Presenza sul posto di lavoro ridotta al minimo e massimo accentramento delle attività di competenza.
4 – Allungamento smodato della presenza sul posto di lavoro cui si abbina il ricorso ad una delega piena e generalizzata.
Si noterà che le condizioni 3 e 4 sembrano contro intuitive considerando che la scarsa presenza in Ufficio è ritenuta incompatibile con il sovraccarico di lavoro dovuto all’accentramento e che una delega piena di responsabilità ai collaboratori renderebbe superfluo l’eccesso di tempo trascorso nella istituzione.
Da un punto di vista esclusivamente amministrativo sarebbe più conveniente per l’impresa che si dilatasse il tempo trascorso dal Capo in azienda (il quale è, nella maggior parte dei casi, retribuito indipendentemente dal tempo speso sul posto di lavoro) piuttosto che dover pagare gli straordinari ai suoi collaboratori investiti della delega. Prescindendo da molte altre considerazioni, con le quali sottilizzare sul ragionamento su esposto, alle variabili Tempo di lavoro e Tipo di delega si dovranno almeno aggiungere altri due fattori chiave: l’urgenza del compito e la complessità del problema di volta in volta trattato.
Sulla base di questi ulteriori elementi il quadro sinottico si potrà modificare come segue (Fig.1 – pag. a lato):
In quest’ultimo schema l’urgenza abbinata alla complessità del problema può far propendere per una soluzione immediata e accentrata (supponendo che il Capo sia in possesso di una capacità di risoluzione del problema superiore a quella dei collaboratori). D’altro canto le incombenze sgranate secondo un programma prestabilito e compatibili con le competenze dei dipendenti sono passibili di delega o assegnazione senza vincoli pressanti di tempo.
ALCUNI ATTRIBUTI SCONTATI DEL TEMPO
Pur arcinoti o del tutto intuitivi cogliamo questa occasione per ribadire i peculiari attributi del tempo.
Il tempo è immateriale e non si può accumulare come un bene tangibile;
Il tempo è inflessibile, non si può alterare a piacere.
Il tempo è immutabile, fluisce allo stesso modo dappertutto (legge della relatività a parte).
Ciò che l’uomo, e nel nostro caso il dirigente aziendale, può fare non riguarda il tempo ma solamente i fatti che occorrono mentre esso scorre.
Di conseguenza le cose che è possibile fare col tempo sono:
– Molteplici; riguardano tutti gli aspetti dell’attività gestionale.
– Manipolabili; si possono progettare e svolgere a piacimento dell’artefice.
– Dislocabili; è possibile farle accadere quando e dove si ritiene opportuno e conveniente.
In sintesi il tempo abbonda o è insufficiente secondo l’articolazione del nostro programma di attività.
Per quanto costi ammetterlo l’abituale espressione «non ho tempo per quella cosa» significa concretamente «Ho implicitamente deciso di usare il tempo in modo tale da non potermi curare di quella cosa».
Pertanto, richiamando il quadro sinottico soprastante, la scelta di portare a termine un compito:
IO STESSO;
IN QUESTO MOMENTO;
RAPIDAMENTE;
IN MODO APPROPRIATO;
definisce in qualche modo la qualità della risposta personale agli stimoli (direttive, ingiunzioni, obbligazioni, ecc.) ricevuti dall’organizzazione.
Invece, all’estremo opposto, la decisione di far eseguire un’attività lavorativa:
A QUALCUNO;
IN UN SECONDO TEMPO;
SENZA ASSEGNARE SCADENZE;
TRANSIGENDO SULLA SUA ESECUZIONE;
mette in evidenza una graduazione del potere detenuto dal decisore all’interno dell’organizzazione. Questo perché dispensarci da un impegno che formalmente ci compete è un «atto amministrativo» che può avere diverse motivazioni (consapevolezza della nostra relativa incompetenza dell’argomento; intenzione sleale di affaticare l’assegnatario della delega; liberare tempo per dedicarci ad altri problemi, ecc.), quasi tutte però collegate al nostro reale potere organizzativo.
MODELLO PROCEDURALE PER L’USO RAZIONALE
DEL TEMPO NELL’ORGANIZZAZIONE
Facendo tesoro delle considerazioni sul tempo più spiccatamente «filosofiche» (il cui scopo è quello di fornire un minimo di sfondo concettuale ai fenomeni qui dibattuti) e di quelle più metodologiche con le quali si è operata la basilare distinzione tra la natura disparata delle azioni e la loro comune implicazione cronologica, vorremmo concludere esponendo uno schema di principio per affrontare con ordine la disorientante commistione tra il tempo e gli impegni lavorativi.
SEQUENZA CONSIGLIATA
A – STABILIRE UN OBIETTIVO PRIORITARIO SOVRAORDINATO CHIARO E CONDIVISO.
B – RAGGRUPPARE E CLASSIFICARE LE ATTIVITA’ DI COMPETENZA SECONDO LA LORO DESTINAZIONE FUNZIONALE.
C – INDIVIDUARE LE ATTIVITÀ ATTINENTI ALLA REALIZZAZIONE DELL’OBIETTIVO PRIORITARIO.
D – SCEGLIERE TRA LE ATTIVITÀ COERENTI ALL’OBIETTIVO QUELLE RITENUTE PRIORITARIE.
E – DECIDERE SULLA BASE DELLE PRIORITÀ A CHI, QUANDO E COME FAR SVOLGERE LE ATTIVITà’ ALL’INTERNO DEL LASSO DI TEMPO A DISPOSIZIONE.
AVVERTENZA
Sviluppando il processo decisionale relativamente alla scelta delle priorità è fatale cedere ad un qualche criterio che si discosta da quello informato al principio di importanza. Il termine importanza allude alla esigenza imprescindibile di perseguire l’obiettivo considerato irrinunciabile ai fini della stabilità, della continuità e, ove sia giustificabile, della competitività dell’organizzazione.
Gli altri criteri di comodo cui si aderisce, spesso inconsapevolmente, per convenienza personale sono:
– CRITERIO ASSERVITO ALLA SEMPLICITÀ E CELERITÀ
Al riparo di questo criterio si fanno scelte guidate dalla facilità e dalla rapidità di esecuzione dei compiti scaturiti dalla decisione attorno alle priorità.
– CRITERIO FONDATO SULLA COMPETENZA CONSOLIDATA
Si dà spazio alle attività che il decisore è consapevole di svolgere con maggior perizia, anticipando con tale opzione un sicuro successo.
– CRITERIO BASATO SULL’IMPORTANZA O INTRANSIGENZA DEL COMMITTENTE
Si assegna priorità agli adempimenti pretesi da una autorità sovrastante e con elevato potere di rivalsa.
– CRITERIO SUGGERITO DALL’URGENZA
La precedenza viene accordata a quelle iniziative imposte da una prossima indilazionabile scadenza.
– CRITERIO SUGGERITO DALLA CRUCIALITÀ DELL’OBIETTIVO
La priorità è determinata dalla natura dell’obiettivo necessario per assicurare all’organizzazione condizioni stabili di equilibrio e solidità.
Si può concludere, crediamo utilmente, questa breve trattazione sull’organizzazione del tempo nell’ambiente di lavoro con due succulente citazioni. Rispettivamente di Erich Fromm e Herbert Spencer:
«L’uomo moderno pensa di perdere tempo quando non fa le cose in fretta. Però spesso non sa che fare del tempo risparmiato. Infatti lo ammazza».
«Il tempo è ciò che l’uomo è sempre intento ad ammazzare, ma che alla fine ammazza lui».
BIBLIOGRAFIA
Ambrosini M., «Per una psicologia del tempo», in Psicologia e Lavoro, n. 41, 1983.
Fontana D., Gestire bene il tempo di lavoro, Edizioni Erickson, Trento, 1997.
Heidegger M., Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1998.
Piper N., «La dittatura del tempo», in Internazionale, n. 115, 2 Febbraio 1996.
Seiwert L.J., Gestisci il tuo tempo, Angeli, Milano, 1993.
Varvelli R., Lombardi M.L., Il tempo come risorsa manageriale, Quaderni di formazione Pirelli, n. 51, Milano, Luglio 1984.
Vicario G.B., «Il tempo in psicologia», in Le Scienze, n. 347, Luglio 1997.
Le relazioni dei Recorder
A. Brisone
LE RELAZIONI DEI RECORDER
Recorder: Alina Brisone
I partecipanti al seminario hanno lavorato, al pomeriggio, in gruppi medi (20/25 partecipanti per gruppo), condotti con tecnica gruppoanalitica.
I contributi che seguono sono le relazioni di due partecipanti che, in gruppi diversi, hanno svolto la funzione di recorder.
Il recorder è un componente del gruppo (in questo caso con diritto di parola) che si assume il compito di prendere nota di ciò che accade nel gruppo e, successivamente, di stendere una relazione scritta.
Secondo la tecnica gruppoanalitica quello del recorder si configura come uno dei possibili punti di vista riguardante lo svolgimento del lavoro del gruppo; inoltre la stesura del protocollo in un momento successivo all’incontro può fornire una visione «in differita» rispetto alla quale le dinamiche vissute e osservate nel gruppo possono assumere ulteriori colorazioni.
Il «tempo» entra nel gruppo attraverso riflessioni riguardanti le differenze nelle diverse culture rispetto a questa dimensione, il suo carattere «oppressivo» e la difficoltà che comporta nello stabilire una scelta di priorità.
Il tempo sembra avere un significato particolare e specifico a seconda degli ambiti professionali in cui si colloca. Nel lavoro clinico appare con un carattere maggiormente «soggettivo», con significato non tanto di scadenza quanto di contenitore del «qui ed ora», in cui il paziente è libero di «prendersi il tempo che necessita»; ma per tale motivo si può forse considerare poco significativo?
In ambito organizzativo il tempo sembra assumere una veste più oggettiva, come uno dei tanti aspetti che concorrono a produrre e raggiungere uno scopo, mentre nell’intervento di formazione emerge il senso del limite del tempo, un limite fisico ed organizzativo, che definisce un tempo non reintegrabile, che le persone devono cogliere, percepire per definire un risultato.
Emerge nel gruppo il grande dilemma che concerne il concetto «tempo»: una costrizione, un vincolo opprimente che non lascia spazio alla creatività oppure una dimensione interiore, un limite interno che entra nella gestione della relazione con l’altro, con il paziente ? La riflessione sulla dicotomia tempo oggettivo-tempo soggettivo, interno-esterno sottolinea la difficoltà a far coincidere i due termini di questa dimensione con il rischio di chiudersi autisticamente intorno ai propri tempi interni.
Risuona nel gruppo il ricordo di un video scolastico sulle leggi della termodinamica, che rappresenta metaforicamente l’irreversibilità del tempo : come l’ardere della legna è un processo irreversibile ma che produce calore, così il succedersi degli eventi non permette di tornare indietro ma lascia qualcosa che rimane, come il calore prodotto dal fuoco.
La difficoltà ad armonizzare tempi esterni e tempi interni viene associata alla difficoltà a mettere insieme gruppi esterni e gruppi interni, come d’altronde a mettere insieme professionalità diverse, cosa che sta avvenendo nel qui ed ora del nostro gruppo, dove sembra si possa affrontare il tema del tempo orientando il parlare solamente intorno a delle differenze – il tempo femminile è diverso da quello maschile, il primo ciclico e riproduttivo, il secondo lineare e produttivo ? Le differenze trovano origine nel biologico o nel sociale, oppure sono da ricercarsi su un piano simbolico ?
Il tempo del gruppo viene occupato da riflessioni animate che pescano negli stereotipi, che spostano la discussione da un piano personale ad uno razionale e quindi più riduttivo.
L’intervento del conduttore riporta l’attenzione sul gruppo, offrendo una possibilità di pensiero su come il senso di irreversibilità e di finitezza che appartiene ad ogni cosa sia vissuto in maniera angosciante, in contrapposizione alla funzione rassicurante della replicabilità.
In questo gruppo è possibile bruciare la legna e produrre calore? Qui l’anticalore può essere rappresentato dall’iper-razionalizzazione che riconduce a qualcosa che c’è già stato, agli stereotipi, che nella loro veste di replicabilità difendono dalla paura di esserci nel gruppo, di portare in esso le emozioni.
Si parla intorno alla responsabilità che ognuno si deve assumere nel vivere ogni momento del proprio tempo, anche il tempo di questo piccolo gruppo, che si incontra ora, in questo determinato spazio e non si potrà replicare mai più. Ma se è vero che ogni momento è irreversibile, allora in ogni momento la catasta brucia e può essere prodotto calore
Lo spostamento di attenzione su ciò che sta avvenendo nel gruppo permette l’emergere di scambi comunicativi che rimandano ad un livello più personale, meno difensivi, e che riflettono la difficoltà a gestire il tempo professionale, come se fosse impossibile pianificare e fare delle scelte su una scala di priorità ma si dovesse «prendere tutto», lottando contro un tempo che sembra sfuggire e che non è mai abbastanza. Si ha l’opprimente ed assillante sensazione che non ci si possa permettere di «prendere tempo», finendo per definire il proprio tempo in base a priorità che rispondono più a bisogni primari di sopravvivenza piuttosto che a desideri di gratificazione.
Appare con forza lo scarto esistente tra ciò che si può fare e ciò che si vorrebbe fare del proprio tempo, scarto che impedisce di vivere appieno ogni momento con la consapevolezza che non tornerà più, di stare completamente nel tempo che si vive e quindi nella relazione con l’altro.
Il vincolo del tempo comporta la necessità di accettare che non si è onnipotenti : la scelta del tempo si accompagna sempre e comunque ad una rinuncia inevitabile.
Perché si produca calore, riprendendo la metafora della catasta che brucia, occorre leggere il tempo non come semplice ACCUMULO ma come processo di ESPERIENZA, con memoria del passato e progettualità per il futuro.
Solo attraverso questo passaggio si può trasformare uno sterile «riempire il tempo» in una fonte di ricchezza.
LE RELAZIONI DEI RECORDER
Recorder: Alessandra Musoni
I partecipanti al seminario hanno lavorato, al pomeriggio, in gruppi medi (20/25 partecipanti per gruppo), condotti con tecnica gruppoanalitica.
I contributi che seguono sono le relazioni di due partecipanti che, in gruppi diversi, hanno svolto la funzione di recorder.
Il recorder è un componente del gruppo (in questo caso con diritto di parola) che si assume il compito di prendere nota di ciò che accade nel gruppo e, successivamente, di stendere una relazione scritta.
Secondo la tecnica gruppoanalitica quello del recorder si configura come uno dei possibili punti di vista riguardante lo svolgimento del lavoro del gruppo; inoltre la stesura del protocollo in un momento successivo all’incontro può fornire una visione «in differita» rispetto alla quale le dinamiche vissute e osservate nel gruppo possono assumere ulteriori colorazioni.
Presenti: 20 persone complessivamente
La conduttrice propone un giro di presentazione del gruppo con le impressioni di ciascuno sulle relazioni ascoltate al mattino e così iniziamo a parlarci… in senso antiorario!
Si tenta una serie di definizioni del tempo, il nostro tema odierno, spaziando dalla ciclicità del tempo al rapporto tra noi e il tempo nell’età odierna, l’era della tecnica; si cita «Psiche e techne», il recente libro di U. Galimberti, nel quale la tecnica sembra trascendere l’umanità nostra e quella del tempo…
Negli interventi che si succedono si parla di tempo clinico, tempo lavorativo e tempo libero, il dibattito si accende sulle differenti modalità del tempo nella quotidianità e nel setting lavorativo: nel gruppo sembra davvero che i tempi siano tanti… ovvero che lo stesso tempo sia percepibile in modi differenti a seconda di come lo stiamo impiegando…
Dopo queste considerazioni i valori del tempo sembrano oltrepassare le frontiere della nostra esperienza e in altri interventi si considerano il tempo orientale e quello occidentale, così lontani nel ritmo di vita, così complementari, forse…
A questo punto il gruppo si interroga sul tempo inteso non soltanto come istante, ma come processo diacronico di sensi anche contraddittori: un tempo amico si alterna con un tempo tiranno, un tempo ansiogeno si trasforma in tempo terapeutico.
Consideriamo un tempo biologico, legato ai cicli vitali, alle stagioni della natura e della vita, insieme ad un tempo culturale, segnato da miti, riti e civiltà storiche.
«Il tempo non basta mai!» dice una collega che aspetta un bimbo, ed anche qui il tempo sembra gravido di stimoli difficili da spiegare compiutamente nel tempo di questo gruppo di lavoro.
La conduttrice sottolinea come il gruppo si stia muovendo spostando l’attenzione tra il tempo individuale, soggettivo e il tempo a volte avvertito come oggettivo, «dato», istituito. In questo oscillare il gruppo sembra sperimentare il tempo come una risorsa, ma incomincia ad avvertirne anche i limiti: il tempo è anche un vincolo.
Negli interventi succesivi si parla di tempi biologici più lenti di quelli tecnologici del «progresso» e il gruppo riflette sul pensare «al tempo» e il pensare «il tempo», rispetto alle scelte di vita personali e a quelle professionali.
Emerge il tema della responsabilità del tempo e nel tempo, giacché si tratta di un concetto irreversibile dell’esperienza, un concetto Transgenerazionale che induce il gruppo a considerare la qualità trasformativa del tempo nelle varie età della vita: tempo d’infanzia, di adolescenza, di maturità e di vecchiaia si diversificano come tempi diversi.
La conduttrice sottolinea come sia difficile uscire da un prima e da un dopo rigidamente fissati e cogliere il tempo come circolare, in uno scambio continuo: il proprio passato si può modificare riletto al presente e si può quindi parlare di un tempo passato, un tempo presente e un tempo futuro modulabili in base al tempo dell’esperienza e al tempo della riflessione, che un’altra collega, prossima al parto considera quali forma e contenuto.
Solo nel tempo possiamo verificare un progetto e il tema ritorna sulle differenze tra il tempo per i bambini e il tempo per gli anziani e sull’alternarsi di esperienze e riflessioni, di tempo del fare e del pensare.
Il gruppo dà delle forme al tempo: punti, circoli, spirali…
In un intervento si nota la similitudine tra la struttura neurofisiologica delle cellule nervose e le continue connessioni – sconnessioni che il tempo comporta per noi, in un alternarsi di tempo pieno e tempo vuoto, di parola e di silenzio.
È un momento del gruppo particolarmente «pieno» e si parla della necessità di uno spazio mentale per comprendere, per prendersi cura, per pensare.
Il gruppo sente il diversificarsi dei tempi di ogni componente e un partecipante avverte ed esprime il bisogno di silenzio, di tempi vuoti dopo aver sperimentato tempi pieni, quasi saturi.
Una collega rammenta gli dei del tempo: Cronos, cosmico, eterno, mangia i suoi figli e vuol essere lasciato andare…mentre Cairos, veloce «codino» è l’attimo fuggente da prendere al volo.
La conduttrice sottolinea come il rallentamento del tempo, la prospettiva del tempo che invecchia, il silenzio e il vuoto siano difficili da tollerare anche in questo gruppo, facilmente il tempo viene «riempito», o noi riempiamo quello degli altri e in questo senso ci sfugge di mano. Nei nostri luoghi di lavoro è fondamentale darsi dei tempi di riflessione, di verifica, nei quali sopportare anche lo sguardo dei limiti, dei vincoli.
Nei successivi interventi il gruppo condivide l’ambivalenza del tempo in questa alternanza di prospettive, tra immagine presente alla quale dare un senso e uno sfondo cornice passato e futuro nei quali attingere da una memoria per immaginare un desiderio.
Avvertiamo tanti tempi anche tra noi, tempi differenti nello stesso tempo, di memoria e di oblio, di piacere e di fatica nell’intrecciare i nostri mondi e nel tollerare i rispettivi tempi in questa occasione di confronto: non è facile, a volte c’è la paura di essere sopraffatti o rallentati da un ritmo che non ci rispecchia, da un tempo che non è proprio il nostro perché è quello del gruppo in quel momento.
Un partecipante al gruppo, verso la conclusione, riporta qualcosa che non ha chiaro, che non ha capito, ma aggiunge di volersi dare del tempo per capire: «Fra un po’, forse, lo capirò!»
Il gruppo coglie questo intervento come una prospettiva temporale che ridà al tempo una sua dimensione di possibilità e lo libera dalle dimensioni di pieno/vuoto, tutto/niente, onnipotenza/impotenza.
L’energia che abbiamo sentito scorrere nel gruppo è molta, e l’alternanza di tempi che abbiamo sentito nel gruppo sembra rassicurarci nella sua relatività.
Abbiamo condiviso un’esperienza nuova oggi e riconosciamo che probabilmente potrà dare altri frutti…nel tempo.