In questo numero: Nota redazionale
A. Simonetto
Identità e scelte professionali
A. Gentinetta
Il percorso formativo tra tecnica e arte
F. Calcagno
Una prospettiva gruppoanalitica nel processo di formazione
Le relazioni dei Recorder
S. De Lisi
M. Gallo
R. Tomasetta
M. T. Lerda
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IN QUESTO NUMERO: NOTA REDAZIONALE
In questo numero dei «Quaderni di Gruppoanalisi» pubblichiamo il materiale relativo alla giornata seminariale «Formazione e Identità dal Gruppo Familiare al Gruppo Professionale».
Tale giornata si è svolta a Torino, il giorno 8 aprile 2000, coordinata da Franco Calcagno, nell’ambito del programma di corso della Scuola di specializzazione in psicoterapia della C.O.I.R.A.G., Istituto di Torino, ed ha visto la partecipazione degli allievi dei Training presenti nell’Istituto: due di area Gruppoanalitica e due di area Psicodrammatica.
Nella mattinata si sono succedute le relazioni di Alessandra Simonetto, Alma Gentinetta e Franco Calcagno, docenti della Scuola, che hanno esplorato, su diversi livelli, l’intrecciarsi dei concetti cardine della giornata. A. Simonetto ha ripercorso lo sviluppo del concetto di identità; A. Gentinetta ha coniugato il concetto di identità con quelli di formazione, e formazione professionale, riferendosi in particolare a quanto potrebbe definire la specificità di una formazione alla psicoterapia; F. Calcagno, infine, ha analizzato, in chiave gruppoanalitica, la posizione di docenti e discenti di una Scuola di specializzazione in psicoterapia nei confronti del compito che, con due ruoli differenti, li trova insieme coinvolti.
Le riflessioni sono state presentate agli allievi, che sono stati invitati a lavorare, nel pomeriggio, in quattro gruppi suddivisi per biennio e per area, alla ricerca di una propria collocazione rispetto a tali concetti, da confrontare con quanto proposto dai docenti.
Riportiamo qui di seguito gli interventi dei relatori della giornata, ed i lavori degli allievi della Scuola C.O.I.R.A.G., che hanno svolto la funzione di «recorder» nei gruppi del pomeriggio.
IDENTITÀ E SCELTE PROFESSIONALI
Alessandra Simonetto
Quando abbiamo iniziato ad incontrarci per preparare questa giornata di lavoro, ci siamo trovati a discutere non tanto sui contenuti, scambiati con piacere e curiosità, quanto sulla metodologia nel proporvi questi stessi contenuti. Non vi voglio raccontare questo frammento per poter dare insieme un’occhiata alla stanza dei genitori, quanto perché credo che nel nostro dibattito abbia iniziato a presentarsi in modo vivo e reale il nodo fondamentale della identità e di quale tipo di responsabilità si possa parlare nella trasmissione formativa.
Estremizzando, i poli della discussione erano: 1. dobbiamo avere un assetto fortemente didattico per evitare il rischio di confusione e destabilizzazione nella trasmissione dei concetti; 2. dobbiamo avere un assetto fortemente creativo per evitare il rischio di un apprendimento ripetitivo.
Esattamente come nel percorso analitico, anche il percorso formativo si pone per i docenti e per i discenti come dibattito e tensione tra la ricerca di una conferma di sé, della propria identità, della propria coesione interna disturbata dalla presenza della sofferenza, o disturbata dalla presenza dell’ignorare, rispetto all’apertura di una crisi della propria identità e NELLA propria identità rispetto ai cambiamenti continuamente proposti e richiesti dal nostro stare dentro il mondo in cui viviamo e dal nostro stare dentro il trascorrere del tempo personale che, potenziale-incontrollabile-esigente portatore di proposte e richieste di cambiamento, ci mette continuamente a confronto con la potenziale e continua trasformazione del nostro stesso corpo e della percezione che gli altri hanno di lui.
La RESPONSABILITÀ che veniva dibattuta nei nostri incontri di discussione era quella di collocarci in un ambito Didattico-gerarchico, motivati dalla necessità di trasmissione di un sapere di cui siamo provvisti rispetto a chi ne è sprovvisto (o sprovveduto ed è una sfumatura del linguaggio, per me che presto maniacale attenzione alle sfumature di significato dei linguaggi, importante). Differenza di cui sono convinta e che deve essere ribadita per evitare facili compiacimenti o falsi adattamenti pseudodemocratici. La trasmissione didattico-gerarchica permette di prendere appunti, di uscire da un incontro con la sensazione di aver arricchito la propria competenza di qualche pagina in più, di utilizzare tecniche o teorie in modo più accorto e competente.
La seconda RESPONSABILITÀ presente nella discussione era quella della costruzione di una competenza che permettesse di imparare a costruire la propria competenza, una sorta di meta-formazione in un certo senso, o di formazione della formazione se vogliamo complicarci la vita. In sostanza l’introduzione di un secondo livello sia di responsabilità sia di trasmissione della competenza che deve fondarsi su qualche cosa di diverso rispetto a quanto viene didatticamente trasmesso: ed è la continua tensione verso la ricerca di «costruzione del senso di ciò che stiamo insegnando, di ciò che stiamo imparando, collocato nell’epoca in cui viviamo».
In un contesto in cui un operatore si pone all’esterno/di fronte al bisogno dell’altro si può anche pensare che la legittimazione sia data dall’assolvere ad una funzione, ad un ruolo ben precisi.
Si tende ad una stabilizzazione equilibrata, data da un graduale passaggio: per trasmissione.
Maruyama, a cui si deve il termine di «seconda cibernetica» parla di responsabilità-tecnico-epistemologica: che richiede una coerenza tra i modelli di riferimento e le interpretazioni.
In un contesto in cui l’operatore si pone all’interno dello stesso contesto relazionale si tende ad un cambiamento, ad una destabilizzazione che passa attraverso l’interazione.
La coerenza è rivolta verso una costruzione in divenire, in cui ad ognuno è continuamente richiesto di riflettere sul rapporto tra quei modelli teorici e le proprie personali idee ed emozioni. Si chiede coerenza verso un «far-si» (fare-sé) non solo verso un fare.
La responsabilità relazionale non può fondarsi solo su un modello teorico ma deve affidarsi – come dice Bateson – all’estetica: ad una sensibilità che nasce dalla continua attenzione e riflessione su come i propri sentimenti e quelli dell’altro si modulano, si armonizzano o si destabilizzano.
Sono posizioni diverse rispetto alla possibilità di introdurre e condurre una comunicazione, una relazione…Una volta una paziente portò un sogno molto bello in cui la relazione era intesa nelle due accezioni: come relazione a- qualcuno e come relazione con- qualcuno.
I miei interessi mi hanno portata a prestare attenzione al termine IDENTITà. A seconda delle culture di cui ci possiamo occupare e a seconda dei secoli che possiamo studiare abbiamo l’opportunità di accorgerci di come il tema dell’Identità sia stato sviluppato in modi rigidamente monadici o viceversa come flussi continui di presenze o energie. Discorsi affascinanti, che servono come continua comparazione, ma che qui voglio limitare ad un filo che culturalmente ci accomuna: ed è quello di un concetto di identità che, da Cartesio in poi, ha iniziato a presupporre una differenziazione tra l’IO come soggetto rispetto ad un ME (o sé) come complemento oggetto.
Noi diventiamo capaci di conoscere i vari aspetti di noi stessi perché come IO-soggetto, possiamo osservare i diversi modi relazionali espressi dal ME. Questo mantenendo un sufficiente senso di permanenza di noi stessi da permetterci sia il distacco, sia il contatto. Distanza tra Soggetto osservante e Oggetto osservato che permette la costruzione di una capacità simbolica. Ecco come, per la gruppoanalisi la NATURA, espressa dall’IO e la cultura, espressa dal ME, si sottraggono alla contrapposizione natura-cultura per fondare il senso dell’identità, proprio all’interno della capacità simbolica.
Ogni individuo partecipa della propria cultura intesa come familiare e come sociale. La cultura gruppoanalitica è fondata sul pensare che l’individuo incide sul mondo dandogli senso e che il mondo incide sull’individuo dandogli senso: è questo che si chiama circolo ermeneutico cioè una continua inter-relazione tra ciò che è individuale e ciò che è sociale. Là dove questa inter-relazione non è sufficientemente dinamica non può essere creativa, irrigidendosi in identificazioni che non permettono una «sufficientemente buona» formazione dell’identità. Solo la riflessione, cioè la possibilità di rifletterci a partire dalla proiezione della nostra immagine su uno specchio, con i rimandi e le considerazioni che può suscitare, solo la riflessione ci permette di muoverci senza perdere la nostra identità, anzi, formandola.
Molti modelli psicoanalitici che fondano il pensiero attuale hanno utilizzato un concetto di identità che andava alla ricerca di un fondamento-primo, fondamento-primo dato da un bagaglio genetico piuttosto che pulsionale; in anni più recenti dato dal concetto di permanenza dell’oggetto (vale a dire di mantenimento in memoria di una quantità sufficiente di stabilità che rende possibile il riconoscimento coerente di se stessi). La ricerca di un punto di partenza dal quale fosse possibile esplorare il mondo sociale, il mondo esterno con i propri stimoli, le proprie trasformazioni percepite come stimolanti o come potenzialmente pericolose proprio per la stabilità della propria identità.
Le mie ipotesi teoriche utilizzano il pensiero di Foulkes sulla struttura gruppale e relazionale della mente umana. Foulkes ipotizza un modulo della mente che si basa sull’identificazione del bambino con figure significative (genitoriali ma non solo) o con parti scisse di esse e introietta insegnamenti, comunicazioni e modelli di relazione con cui si è trovato in contatto nei primi anni di vita. Questa somma di identificazioni, questo gruppo interno, viene denominato da Napolitani «IDEM».
Scrive Napolitani in «Identità e Gruppalità». «L’Identità dell’uomo si caratterizza sin dalle origini per la sua culturalità cioè per l’insediamento, tanto più stabile quanto più precoce, di segmenti di relazioni che comunque riguardano l’individuo che in quell’ambiente nasce e si va esprimendo».
Nel senso quindi che il complesso di relazioni che possono costituire oggetto di identificazione, costituiscono una matrice familiare-gruppale che sta a fondamento della costruzione di una visione del mondo.
Parafrasando Winnicott si potrebbe dire che, se si è avuta una matrice familiare «sufficientemente buona» ci si può trovare in una condizione relazionale sufficientemente strutturata ma anche sufficientemente aperta a ciò che non è già a priori compreso nel proprio ambito conoscitivo, quindi sufficientemente aperta a ciò che è creazione di Altro da Sé.
Ma i modelli di base ricevuti iniziano ben presto, anche attraverso i primi lievi ampliamenti di ambiti ancora familiari ad essere messi a confronto con altri modelli. Dai nonni alla scuola materna e così via proseguendo.
E questo inizia ben presto ad aprire il dibattito fra coerenza e coesione dell’IO-soggetto-stabile con l’IO-oggetto-dinamico di esperienze, di confronti, di pressioni….
Si apre quindi una possibilità di creazione originale di ogni singolo individuo (che forse non dipende interamente dalle sue esperienze infantili).
Mitchell introduce il concetto di MATRICE relazionale: «Io divento la persona che sono nell’interazione con altre persone specifiche…quell’organizzazione del Sé diventa la mia Natura, quegli attaccamenti diventano il mio senso delle possibilità all’interno della comunità degli altri; quei modelli di interazione diventano la base del mio senso di sicurezza interpersonale e di competenza per funzionare nel mondo».
Ma come questa identità fondata e fondante si confronta con la creatività potenzialmente presente in ogni nuova occasione, in ogni nuovo incontro? Con un’ottica che procede dall’identità verso la socialità potremmo dire che ogni occasione, ogni nuovo incontro possono essere la replicazione transferale/drammatizzata/immaginaria della mia gruppalità interna, della mia matrice familiare.
Ma, sperando di essere chiara, dobbiamo affrontare l’altro polo dell’esperienza, quello del ME inteso come complemento oggetto, come fenotipo, cioè come manifestazione-incarnata di un geno-tipo che si pone all’origine di ogni sua stessa manifestazione. Ma una formula che riconduca all’identità può valere per oggetti istantanei colti in una percezione del tempo dell’ordine di un nanosecondo. Perché viviamo nel tempo e perché gli oggetti sono tridimensionali e quindi non percepibili nella loro totalità.
Se un bambino è manifestazione-incarnata di una avvenuta relazione perché non usare questo come prototipo ed esempio di quanto accade anche nella mente, che ha bisogno di produrre manifestazioni che si incarnano per poter continuamente esprimere ed espandere la propria stessa esistenza. La relazione sociale produce quindi delle manifestazioni che vanno contemporaneamente nell’ordine della riproduzione identica e nell’ordine della creazione alternativa.
Un universo pre-mutativo, simbiotico, nel quale il tempo e lo spazio non abbiano ragione di esistere, non si pone nemmeno il problema di una COERENZA continuativa. Problema che si pone invece in un universo nel quale possiamo prendere in considerazione proprio questi vettori fondamentali per mantenere un filo all’interno della trasformazione presente in ogni interazione.
Il concetto di AUTOPOIESI di Varela (con le sue elaborazioni successive) parla della possibilità di auto-progettazione, vale a dire della possibilità di strutturare una matrice personale che pone a fondamento la propria matrice familiare e a sfondamento la propria esperienza di vita.
Mi diceva qualche giorno fa una paziente, rispetto al proprio essersi nuovamente messa, con le proprie mani potremmo dire in una situazione ben nota di ripetitività coatta e percepita come distruttiva «…mi sono messa a pensare…ormai non potevo più fare niente, mi ero di nuovo cacciata nello stesso guaio…mi è venuta una rabbia….ma intanto continuavo a pensare….e poi mi è andato via il pensiero e mi è venuta solo voglia di scappare e di ricominciare tutto da capo…sa l’isola deserta, la vita naturale….senza obblighi…poi mi sono accorta che scappavo senza andare in nessun posto e allora ho preso la mia rabbia e mi sono messa a fare quello che ormai dovevo fare, però ho anche telefonato ad un’amica per incominciare a vagliare le possibilità di un cambiamento di lavoro. Non mi sono licenziata subito, ma non mi sono neanche rassegnata.…a lei sembrerà strano, e in effetti è strano anche per me, ma alla fine di quella giornata ero soddisfatta, ma non soddisfatta come quando uno obbedisce per paura e basta, soddisfatta come quando uno fa diventare sue tutte le cose che gli succedono».
Nella pratica analitica il confronto tra Identità e Disidentità è continuo: il cambiamento chiesto inizialmente da un paziente è inteso come cessazione della sofferenza, scomparsa di sintomi, migliore integrazione nel mondo sociale; senza che possa essere messa in discussione qualla parte della propria costruzione di senso del mondo sentita come sopravvivenza coerente della persona, e che sempre comprende la presentazione dei propri ricordi, delle proprie rabbie, delle proprie ipotesi etiopatologiche. Tutto questo occupa gran parte del percorso analitico, ma se nel percorso analitico ci si «limitasse» ad un confronto sistematico con questi aspetti ci si manterrebbe in una adesione INATTUALE, che non tiene conto dell’attuale che relazionalmente si pone rispetto all’incontro con il Terapeuta, ci si manterrebbe in una mitizzazione totalizzante dei codici istituiti anteriormente, in una totale rappresentazione transferale. Si apre il discorso della TRASFORMAZIONE, di cui qui prendo solo gli aspetti che mi sembrano funzionali al tema della giornata, ma che indubbiamente è di grande ampiezza.
Per riprendere lo schemino dell’IO e del ME, l’identità ha insita, in sé, la possibilità di aprirsi alla propria stessa identità. L’identità quindi può essere polarizzata come sedimento strutturale (IO) o strutturante (ME), ma io propongo il pensarla come processo di relazione inteso in senso simbolico, cioè di mia possibilità di ri-pensamento di me stesso.
Riprenderemo poi nei gruppi di discussione e nel dibattito tutto questo in specifico rispetto alla formazione. Il mio pensiero, mentre scrivevo, era continuamente diviso tra un percorso di trasformazione analitica ed un percorso di trasformazione professionale, con le debite…somiglianze, in questo caso. Voglio inserire un parallelismo rispetto al fatto che anche la Scuola si può collocare in un universo pre-mutativo in cui la formazione, l’analisi didattica possono garantire ufficialmente il mantenimento dell’identità e della continuità con una sorta di clonazione di terapeuti, affiliati in nome degli antenati e della tradizione; rispetto alla collocazione in un universo in cui il tempo e lo spazio, con le differenze di età e di esperienze, con le differenti esigenze di RICONOSCIMENTO, che pure sono presenti sia nei docenti sia nei discenti, introduce una possibilità di creatività. Parallelismo con la capacità dinamica o conservativa di una struttura Familiare.
Indubbiamente oggi siamo facilitati in questa riflessione, non solo per l’apporto dei maestri, ma anche per una condizione storica, sociale e culturale particolare, che non si era mai posta prima, vale a dire il fatto che i processi di comunicazione hanno fondamentalmente introdotto dei cambiamenti che costringono ad inquadrare i processi di IDENTITà e di IDENTIFICAZIONE in un ambito molto più esteso, travolgente ma anche stimolante.
Il senso di noi stessi si mantiene coeso attraverso un lavoro molto complesso e svolto a più livelli di interazione tra matrice di base/familiare/gruppalità interna in comunicazione reciprocamente compenetrabile con la struttura sociale del gruppo di appartenenza. Per noi, che qui stiamo parlando e ascoltando, sono le immagini sociali degli psicologi e degli psicoanalisti, sono le richieste ministeriali rispetto ad una professione, sono le costrizioni per il raggiungimento di un lavoro, sono l’aristocratico pensiero di comprendere il funzionamento della mente, sono l’esame di stato o l’efficacia dei propri modelli di pensiero.
Il senso di noi stessi si mantiene in un processo di RICONOSCIMENTO.
Credo che il problema sia quello di imparare a raffigurarci una identità individuale profondamente compenetrata dalla comunità. Posso fare un esempio persino banale nella sua semplicità. Certamente a tutti noi è capitato di pensare almeno una volta …alla settimana…per quanto mi riguarda «Ma fossi libero di fare come voglio», rendendomi immediatamente conto che ogni individuo è in grado di lavorare, decidere, pensare, solo tenendo conto dei confini delle istituzioni (interne o esterne che siano) da lui stesso create. Tenendo conto significa poter utilizzare nel senso dell’adesione o dello sfondamento creativo di quegli stessi confini che danno contenibilità ai miei stessi pensieri.
Ancora due parole sul riconoscimento. Quante accezioni possiamo trovare a partire dall’evoluzione fisiologica in cui la possibilità che mi è data in una relazione materna di sentire riconosciute le mie sensazioni si pone a fondamento del mio sentirmi e del mio sentirmi riconosciuto e non pazzamente preso da sensazioni bizzarre.
Ma, restando in ciò che è fisiologico, il riconoscimento è cercato in una coppia come conferma di sé, con tutte le proiezioni, illusioni e disillusioni del caso. Nel riconoscimento c’è anche il bisogno di trovare e poi di ri-trovare infinite volte la propria identità.
Anche in un percorso professionale parliamo di riconoscimento: sociale, didattico, di allievi che vogliono essere accettati come sono, di docenti che chiedono di essere confermati nelle proprie teorizzazioni.
In un percorso analitico invece la conferma di sé viene messa in discussione.
Il riconoscimento passa attraverso il trovarsi più che attraverso il ri-trovarsi. In un gruppo è stata ben raccolta la battuta di un paziente che continua va a dire «…eh ci ritroviamo qui per un po’ « come ripetitività che impediva di conoscersi, di incontrare le rispettive identità.
Intorno a queste tre parole chiave: responsabilità, identità, riconoscimento, si chiude la mia riflessione.
IL PROCESSO FORMATIVO TRA ARTE E TECNICA
Alma Gentinetta
La formazione è un processo che vede coinvolti allievi e docenti; quella di oggi vuol essere un’occasione per problematizzare e approfondire alcuni elementi che caratterizzano questo processo.
Nell’intervento di Sandra Simonetto le connessioni tra formazione e identità, che hanno dato lo spunto e il titolo al seminario di oggi, sono state percorse sottolineando e approfondendo il concetto di identità.
Io farò con voi alcune riflessioni partendo dall’interrogarci sul concetto di formazione e più nello specifico su ciò che possiamo ritenere caratterizzante un percorso formativo offerto da una Scuola di Formazione alla Psicoterapia.
Ogni scuola di ogni ordine e grado ha presenti fra i propri compiti alcuni obiettivi che rimandano alle dimensioni formative, questi obiettivi dovrebbero sottendere ed essere comuni ai vari insegnamenti, in una dimensione, come si usa dire, trans-disciplinare.
Nelle varie programmazioni scolastiche si parla così di formazione dell’individuo, del cittadino, si fa riferimento alla maturazione globale raggiunta ecc. Ogni ordine di scuola ha poi dei contenuti disciplinari specifici che dovrebbero via via portare ad una configurazione anche professionale più specifica.
Ci si muove quindi su un doppio versante: da un lato una formazione che direi più globale, ad ampio respiro, dall’altro una formazione più specifica e professionalmente caratterizzante.
Sappiamo tutti però che una delle critiche più comuni e ricorrenti al nostro sistema scolastico segnala come anche i percorsi più lunghi e articolati, compreso il percorso universitario, spesso si limitino ad una pur ricca informazione teorica e poco coltivino una formazione professionale.
Ad esempio, mi viene in mente come nei colloqui che ho con i laureati in Psicologia al momento della richiesta di tirocinio, emerge da parte loro il desiderio di «provarsi», di «misurarsi», di iniziare a costruirsi un’identità e un ruolo, di passare dalla teoria alla pratica, o meglio, di sperimentare ciò che hanno teoricamente appreso.
La nostra, per definizione, è una Scuola di Formazione alla Psicoterapia, la formazione allora diventa qualcosa di più di uno degli elementi in gioco, perché è l’obiettivo specifico e qualificante, ma è anche il mezzo e lo strumento per raggiungerla; vale a dire che si arriva alla formazione attraverso il processo stesso di formazione.
Le Scuole di Formazione alla Psicoterapia sono state ufficializzate come porta d’accesso all’esercizio della professione di psicoterapeuta e hanno avuto un preciso ordinamento.
Da un lato quindi la formazione si presenta come un percorso istituzionale, istituito e istituente, codificato, regolamentato, standardizzato in alcuni aspetti (monte ore, modalità di percorso, valutazione ecc.) e tutto ciò attribuisce alla formazione un significato ufficialmente e socialmente riconosciuto.
D’altro canto, però, proprio per la sua specifica natura, per l’oggetto della formazione, vale a dire la psicoterapia, o meglio, lo psicoterapeuta, non si può prescindere da un processo formativo strettamente personale che ha come obiettivo la costruzione di una identità professionale anche individuale.
Che è come dire una bella impresa perché in qualche modo si tratta di muoversi in un continuo raccordo, in una giusta misura, tra quel che direi da un lato un lavoro di trasmissione di strumenti e di conoscenze, che attiene maggiormente alla teoria e alla tecnica, dall’altro un lavoro di formazione «di bottega», che rimanda ad un campo dell’arte.
Un primo punto che vorrei aprire con voi alla riflessione è proprio questo: se, come, in quale misura, la formazione può essere intesa come un percorso che si snoda tra tecnica e arte.
Ci si potrebbe allora chiedere se e come docenti e allievi possano porre un’attenzione costante alla relazione e alla connessione fra questi due territori in modo che l’autorizzazione ad esercitare la professione di psicoterapeuta, che sta in fondo al percorso, corrisponda in misura «sufficientemente buona» alla costruzione di una, anche se iniziale, identità professionale personale.
Il processo di formazione vede coinvolti in qualità di attori allievi e docenti e rispetto al rapporto tra tecnica e arte mi viene da pensare a quanti lavori teatrali eseguiti in modo tecnicamente ineccepibile risultino micidialmente noiosi, artefatti, «falsi», ma anche a quanti lavori prodotti con entusiasmo «creativo» facciano rimpiangere il fatto che gli attori non possiedano nessuna delle tecniche che dovrebbe caratterizzare e valorizzare il lavoro dell’attore, ad esempio l’uso della voce, l’attenzione ai tempi, alla gestualità, allo spazio ecc.: in altre parole non sappiano recitare.
Il problema tra tecnica e arte allora è come far sì che l’una si ponga in modo funzionale all’altra, cosicché la tecnica possa fornire elementi sui quali l’arte, le capacità interpretative e creative personali degli attori possano esprimersi e queste, esprimendosi, possano rendere vive e rinnovate le forme tecniche utilizzate.
Non è certo cosa da poco.
Dal punto di vista dei formatori penso che la Scuola debba rispondere alle esigenze di formazione fornendo da un lato un percorso di acquisizione di competenze, intendendo con questo termine un insieme composto da un modello teorico coerente, un modello operativo, clinico e di teoria della tecnica, quindi un bagaglio di conoscenze, di abilità, di strumenti; dall’altro debba favorire e sviluppare la maturazione delle capacità che renderanno fertili, fruibili e utilizzabili le competenze acquisite.
Ecco che allora, intese in questo modo, le competenze e le capacità in formazione sono ciò che caratterizzano una Scuola di Formazione dall’altra e, ancora più nello specifico, un particolare training formativo.
Competenze e capacità che si apprendono e si maturano non sono uguali per tutti gli psicoterapeuti e il saper consapevolmente connettere competenze e capacità consente di avvertire e di segnare dei confini che portano alla costruzione di un’identità che fa riferimento ad un gruppo di appartenenza, ad un’identità di gruppo.
In altre parole, compito della Scuola di formazione è anche fornire gli elementi di un’identità professionale che si costruisce definendo dei limiti, delle differenziazioni; non è una formazione «sui generis», né un abito che va bene per tutte le stagioni.
Apro allora altre questioni: che cosa sentono gli allievi come specifico della propria formazione in una particolare Scuola di psicoterapia? Qual è il grado di specificità che una Scuola pensa, vuole fornire?
Qual è il valore della specificità?
Se intendiamo la specificità non ciò che isola e separa, ma ciò che consente di costruire un pensiero che distingue e nella distinzione può trovare aree confinanti o intersecanti, allora la specificità non è riduttiva, ma è semplicemente rispettosa della complessità e in tale complessità si colloca, interrogando saperi diversi, aprendosi al confronto pur riconoscendo le diverse appartenenze.
La nostra è una Scuola di formazione alla psicoterapia individuale e di gruppo e l’assetto di gruppo è una metodologia, uno strumento di lavoro, un oggetto di riflessione direi costante; di nuovo, è un obiettivo, ma è anche uno strumento attraverso il quale si apprende.
Il gruppo può costituirsi come un’appartenenza, o quantomeno un riferimento forte nella formazione professionale, ma nel percorso formativo, così come in un percorso clinico, il gruppo si deve porre sia come figura, sia come sfondo di un processo, là trasformativo, qui formativo, mirato comunque ad ogni individuo.
La costruzione di un pensiero riflessivo che oscilli continuamente e circolarmente tra teoria, tecnica e capacità individuali dovrebbe così aiutare la costruzione di un percorso di individuazione nel quale ciascun allievo possa segnare progressivamente i propri territori e i propri limiti.
A questo punto uno snodo che mi sembra interessante è quale consapevolezza e quale responsabilità si assume il formatore e quale consapevolezza e quale responsabilità si assume l’allievo.
Formare ed essere formati, entrare in un processo di insegnamento/ apprendimento vuol dire entrare in un processo che, in forme diverse, dev’essere responsabilmente attivo da parte di tutti gli attori coinvolti.
Che cosa il formatore pensa di poter/ dover insegnare?
Dove pone il suo limite, ad esempio rispetto alla fantasia di «modellare», di far corrispondere ogni allievo ad un modello fisso, ideale, ma dove invece sa far riferimento anche in modo fermo alla specificità della formazione segnalando gli sconfinamenti e aiutando così l’allievo a definire, come dicevamo, confini e limiti?
Che cosa l’allievo pensa di poter/ dover apprendere? Quale parte attribuisce al suo lavoro? Quanto pensa sia necessario acquisire, assimilare con metodo e con pazienza e quanto si attiva per interagire con ciò che gli viene dato?
Formatori e allievi dovrebbero condividere un’attitudine alla conoscenza.
Mi rifaccio al pensiero di Morin che ribadisce la necessità di trasformare, in un processo educativo- formativo, le informazioni in conoscenza. Ciò che caratterizza la conoscenza è l’organizzazione, vale a dire la messa in relazione e in contesto delle informazioni. In altri termini conoscere è «ripensare il pensato», è connettere le conoscenze per evitare la loro sterile accumulazione.
L’attitudine alla conoscenza si fonda sulla curiosità e sul dubbio e comporta un continuo esercizio critico sulle conoscenze acquisite.
Mi pare allora che tutto ciò significhi mantenere una tensione, un assetto mentale fondamentalmente «attivo» che non solo accetta, ma che forse anche cerca la provocazione di quegli «scarti» che incrinano connessioni anche coese e coerenti.
La conoscenza, continua Morin, può poi essere trasformata in sapienza, dove il sapere comprende scienza e saggezza, vale a dire una valutazione che tiene conto del contesto, e in questo senso, direi, si rapporta all’etica. È un sapere che sa di non sapere in modo esaustivo, che, con un termine un po’ antico, direi «umile».
Questo tema apre un ulteriore spunto che aprirei alla riflessione con voi e che riguarda la relazione esistente tra la conclusione del percorso formativo e il processo formativo che, alla luce di quanto detto prima, laddove coincide con un processo di conoscenza, non si può dare mai per concluso.
In questo senso il percorso formativo, anche quando è istituzionalmente concluso, rimane aperto nel gusto della ricerca, del confronto con i colleghi, nell’ordine, come si diceva, della curiosità e del dubbio. Così l’appartenenza può contribuire a nutrire un pensiero, non a soffocarlo, e si pone allora come una preziosa risorsa.
UNA PROSPETTIVA GRUPPOANALITICA NEL PROCESSO DI FORMAZIONE
Franco Calcagno
Nonostante siamo quotidianamente immersi in tematiche quali la formazione e l’identità, anzi forse proprio per questo, mi risulta assai arduo abbracciare tutte le interazioni tra i due termini e l’ordine di complessità che ne deriva. Posso realisticamente provare a navigare in alcuni percorsi possibili, quelli che a me paiono maggiormente importanti ed attinenti al contesto in cui ci muoviamo.
Il contesto ci vede necessariamente oscillanti da posizioni in cui prevale il transfert istituzionale (e tutti gli infiniti intrecci soggiacenti) ad altre in cui prevale il gruppo di lavoro.
La contemporaneità e le rispettive prevalenze sono un atto costitutivo dell’istituzione stessa, ed a noi, attori o soggetti che ci muoviamo all’interno non è dato di governare più di tanto le oscillazioni stesse, ma solo nella consapevolezza del nostro essere immersi, grazie a un’attitudine critica possiamo riconoscerci ed attraversare le opacità del transfert; in modo tale da sostare il più possibile nell’area che chiamiamo gruppo di lavoro.
Per quanto riguarda un gruppo di formazione – come il nostro – sia la posizione «lavoro» che la posizione «transfert» sono inscritte nella reciprocità gerarchica dell’accoppiamento formatore/formando con un corteo più o meno significativo di fantasie, impressioni e sentimenti connessi ai modi di passaggio della formazione stessa.
Idealmente la formazione può trovare un punto di relativa stabilità nel lavorare lambiti e mai travolti dalle passioni ad essa inesorabilmente connesse.
Comunque sia, la formazione non si configura come un oggetto insondabile ed io mi propongo tre stratificazioni differenti, tre livelli possibili.
Ad un primo livello troviamo l’area di passaggio dei saperi (che chiameremo monologica), ad un secondo livello troviamo l’area della reciprocità (che chiameremo dialogica) ed ad un terzo livello si situa l’area co-riflessiva, ovvero quella della domanda.
Cercherò ora di ispezionare queste tre aree, che rappresentano il percorso possibile da me scelto, enunciando un’ipotesi da verificare, che è la seguente.
L’intensità del transfert istituzionale tende a decrescere dalla prima area verso la terza [mono-dia- e riflessiva] così come, andando nella stessa direzione, tende ad aumentare la capacità di lavorare in gruppo.
Primo livello. Pensato come momento privilegiato nel passaggio dai saperi. I saperi intesi come materiali e strumenti di lavoro.
I materiali che configurano la formazione sono le materie di insegnamento, la parte dura del contenitore istituzionale, dove storia, teorie, modelli ed altro hanno la caratteristica comune di una elevata predefinizione dei contenuti e una rigida (e/o rigorosa) prefigurazione relazionale.
Gli strumenti, ovvero quella parte che, in relazione ai materiali, consente il confronto delle prassi lavorative e getta i semi sia dell’acquisizione di una tecnica – comune – sia di uno stile – individuale; quindi siamo contemporaneamente in un ambito sia di apprendimento gruppale che di differenziazione individuale.
L’ambito è gerarchico nella diade docente/discente ed è centrato sulla responsabilità reciproca che riguarda il contratto sulla formazione e cioè il passaggio di materiale e strumenti.
Questa parte dell’universo formativo è prevalentemente monodirezionale e appartiene in gran parte alla categoria «domanda che possiede una risposta».
Cosa che non corrisponde necessariamente al vero, infatti c’è solo un’assunzione a priori che si basa sul fatto che se c’è una domanda – di formazione – «deve» esserci una risposta formativa. Resta in ombra la domanda su chi ha formato i formatori e si delinea un’area deputata ai fraintendimenti reciproci, dove il transfert istituzionale è forte; non a caso questo primo sedimento è quello maggiormente esposto ai venti transferali e alle configurazioni immaginarie. Ne siano prova l’insanabile e più o meno «massiccia» insoddisfazione degli studenti nei confronti di docenti che, pur irrobustiti dal tempo, sono soggetti ad una strisciante frustrazione.
Nel chiudere questa prima parte del percorso, del primo sedimento, mi rendo conto che si potrebbe essere sopraffatti da un qualche sconforto; infatti questa parte ci parla dell’obbligo dell’incontro, del modo ministerializzato e un po’ spersonalizzato della formazione e anche di una microconflittualità che, per quanto civile sia, si avverte certamente come uno sfondo non gradevole. Viene delineato un legame obbligato a tempo determinato (quattro anni in media), un matrimonio d’interesse (la reciprocità dei riconoscimenti), una relazione che è voluta dall’esterno, da una ministerialità occhiuta che valuta e controlla.
Certamente le cose stanno anche così, ma se stessero esclusivamente così ci sarebbe in noi una vocazione al martirio che non mi riesce di rintracciare.
E soprattutto risulterebbe incongruo quello stato di piacere e di soddisfazione reciproca che non di rado proviamo nel lavorare insieme.
Ed è questa incongruità con l’assunto della prima parte che mi consente di accedere al secondo sedimento citato all’inizio, nel passaggio dal monologico al dialogico. Per amor di chiarezza vorrei subito aggiungere che il primo e il secondo punto non sono antagonisti fra di loro. Nuovamente assistiamo ad un’oscillazione dall’uno all’altro e viceversa, in un tempo e spazio dove restano in vigore gerarchia e responsabilità.
Nell’area mono saremo portati a pensare che il passaggio dei saperi arricchisce una sola parte, mentre penseremo più facilmente che la relazione dialogica appartenga agli arricchimenti reciproci. E, anche questo, ritengo sia opinabile.
Sono tentato ad individuare una zona di svincolo dal monologico al dialogico che definirei una sospensione, una sorta di dimenticanza dell’obbligatorietà dell’incontro, che consente ed apre all’apparente incongruità del piacere.
La sospensione esprime uno spazio relazionale dove può nascere l’amore per il sapere, dove il sapere perde il connotato quantitativo e enciclopedico, e può avvicinarsi ad un aspetto più armonico, nell’ordine del qualitativo. Che è anche un passaggio da un pensiero strutturato ad un pensiero che si va strutturando.
Questa perdita di rigidità, consentita paradossalmente dalla stessa rigidità del contenitore istituzionale, si traduce in un luogo non solo di possibile incontro, ma anche fertile alla nascita di parole nuove, di possibile inventività, di pensiero creativo, che per sua natura è oggetto di donazione reciproca e quindi può prescindere dalla reciprocità dei ruoli.
Mi piace sottolineare come l’amore per il sapere e la donazione come reciprocità appartengano al mondo delle eccitazioni reciproche, al mondo del gioco e delle circolarità virtuose dove la formazione diventa un piacere capace di curare e lenire le parti insoddisfatte e frustrate descritte nel primo sedimento.
Propongo anche di notare come in questo assetto relazionale lo spazio per aspettative e fraintendimenti – che sottrae molta energia nella prima parte del discorso – diminuisca considerevolmente e a me pare che questo sia un segno certo dell’assottigliamento transferale a vantaggio di un maggior riconoscimento nei rapporti. Ci sono anche altre conseguenze in questo assetto: la più importante – per differenza – è che nella prima parte la asimmetria dei ruoli (docente/discente) è centrata sul Potere (Es. la unidirezionalità della valutazione); nella seconda parte è centrata sulla reciprocità del riconoscimento, nella differenza, dove la valutazione diventa espressione del percorso compiuto insieme.
In questa area assistiamo ad un gradevole indebolimento dei ruoli così come descritti nella prima parte ed un principio di dissolvimento della questione che abbiamo chiamato «della domanda e della risposta».
Ma è proprio grazie a questi indebolimenti di ruoli e inizio di dissolvimento della diade domanda/risposta che si apre una finestra sulla terza parte del discorso.
Indebolimento e dissolvimento non significano né negazione né superamento dei nostri ruoli bensì, all’interno di questi, vediamo rinforzarsi la domanda fino a tollerare l’assenza della risposta.
Per essere più chiaro devo fare un passo indietro. Abbiamo visto come la rigidità del contesto Istituzionale promuove la possibilità di passaggio dalla posizione mono a quella dia, e come la seconda sia conseguenza della sospensione di alcuni cardini della posizione uno (in particolare sospensione di obbligatorietà e Potere).
Aggiungiamo anche che nella posizione uno c’è la certezza della risposta, la quale soffoca la curiosità, in nome di supposte verità, mentre nella «zona due» dove la risposta è incerta – poiché inscritta negli scambi delle reciprocità – la curiosità può rinascere, nel darci il piacere della ricerca di un sapere non predefinito ma lievemente indefinito.
Possiamo altresì riconoscere quanto entrambe queste due prime parti, nelle diversità descritte, facciano comunque entrambe parte di un fare che, contenuto dalle normative ministeriali, ricava al suo interno luoghi adatti al pensare creativo. Questo mondo del fare conferisce alla scuola una sua Identità Istituzionale.
Ora io credo possibile accedere al terzo sedimento che si presenta come un nucleo nello stesso tempo difficile ma possibile da raggiungere.
Per fare ciò è necessario tollerare il paradosso che per fare una – buona – formazione bisogna sospendere la formazione stessa e cioè l’area del fare.
In assenza di un dover fare formazione, entrambi i contraenti della contrattualità alla formazione possono svincolarsi – quasi totalmente – da un dover fare grazie a un ulteriore indebolimento dei ruoli (professore-allievo) e ad un dissolvimento dell’idea che la presenza di una domanda presupponga l’esistenza di una risposta.
In queste condizioni (indebolimento e dissolvimento), pensate come difficili ma assai preziose, esterne alle condizioni, talvolta intrappolanti, del potere, della risposta certa ed incerta, dell’obbligatorietà e della valutazione, possiamo assistere ad uno spostamento sia dei docenti sia degli allievi che migrano entrambi dalla parte della domanda senza che questa contenga «a priori» nessuna risposta.
La domanda, come avrete inteso, in sospensione di un fare formazione, può essere rivolta al senso stesso della formazione. E come ben s’intuisce, se fare formazione è relativamente difficile, interrogarsi su di essa lo è ancor di più perché significa passare da un fare a un essere in formazione, quindi consegnarci ad una autentica possibilità riflessiva sulla formazione che stiamo facendo, che significa alloggiare in una posizione privilegiata che consente cambiamenti al nostro fare mentre la stiamo facendo – costruire formazione.
Con un’immagine potrei dire che abbiamo la possibilità di cambiare gli interni lasciando quasi inalterate le cornici istituzionali.
Osservando questa terza area è curioso osservare come docenti e allievi siano insieme ma per motivi differenti (nel 1° e 2° sedimento), ma anche che (nel 3° sedimento) sono insieme per gli stessi motivi: cioè nella zona della riflessività e della domanda allievi e docenti si trovano entrambi «in formazione» a pensare un pensiero sulla formazione stessa, così come Bion ci ricorda negli ultimi scritti Memoria del futuro, dove prende in giro se stesso (il suo parlare bionese) ma ci dice, alla fine della sua carriera, di essere in «embrionicità formativa». Ora, coniugare il mondo del fare con la sua sospensione, passando attraverso l’area riflessiva della domanda, significa accorgersi di quanto queste tre aree siano interconnesse e compresenti le une alle altre, anche se in modi diversi, in concentrazioni diverse a seconda dei momenti.
Ebbene ora pare chiaro come le compenetrazioni tra le varie aree, che consentono l’oscillazione tra il fare e l’essere – in formazione -, si diano come processo formativo e riformativo che si costituisce – nel tempo – come la nostra identità professionale (in formazione).
Vorrei dedicare l’ultima parte di questo lavoro ai rapporti inter-istituzionali e, per conseguenza, al confronto tra le molteplici professionalità che si inscrivono all’interno del nostro mondo lavorativo.
Le maggiori scuole di pensiero hanno avuto riconoscimento ufficiale e trovano il loro naturale terreno dialettico nelle sedi interdisciplinari, ossia di confronto dei modelli, della teoria e anche della prassi; altra questione, che trova riscontro tanto nel pubblico quanto nel privato, nasce dal fatto che i vari modelli si trovano e si troveranno in una naturale competizione fra di loro.
Naturalmente la competizione ha bisogno di parametri e ogni assetto istituzionale cerca di possedere i propri. Senza dimenticare però che «la richiesta di cura» dovrà incontrare risposte sufficientemente attinenti alla domanda stessa.
Questo discorso può chiaramente aprirsi a ventaglio con la probabilità elevata di perdersi in mille rivoli.
Per questo motivo propongo di seguire una linea di pensiero sugli aspetti più macroscopici, sulla nervatura principale del problema che stiamo affrontando. E questo a partire dalla domanda «che cosa entra in competizione?».
Certamente tempi, costi e risultati. Occorrerà però definire domanda, contesto e orientamento.
La domanda ed il contesto si aprono alla vostra attuale o immediatamente futura esperienza professionale, sono tante e differenti e quindi faranno parte della discussione che seguirà, mentre l’orientamento fa parte di un discorso meno specifico, meno personale ed è di natura più generale.
Come da premessa, penso a due orientamenti principali ed in competizione fra di loro che siano trasversali sia al pubblico che al privato. Parlo dell’orientamento medicalistico rispetto a quello analitico relazionale.
Pensando di raggruppare nel primo le specialità medico-psichiatriche, l’area farmacologica, tutte le forme di terapia breve comprese quelle di terapia familiare, fino alle terapie focali, alle terapie comportamentali nelle loro varie declinazioni; nel secondo penso di comprendere tutte le terapie analitiche, sia individuali, gruppali che familiari, distribuite ovviamente con accenti differenti nelle varie scuole di appartenenza.
Il primo dato osservabile nell’approccio medicalistico è la parte attiva del curante.«Io ti curo» può passare attraverso l’uso di un farmaco oppure di una prescrizione paradossale in una terapia sistemica, ma quello che è osservabile in ogni caso è che il curante è, – osservante – «separato» dal curato, e colui o coloro che vengono curati sono osservati, e perciò oggetto di diagnosi, naturalmente diversificate dall’occhiale e dalla teoria dell’osservatore, dove la diagnosi è formulata sull’osservato. Nel momento in cui si fa ciò, ricordiamoci che evidentemente è assente non tanto il transfert, ma l’uso del transfert. Nell’approccio analitico relazionale la parte attiva è invece posizionata in colui o coloro che chiedono la cura. In sintesi diremo «Tu ti curi in mia presenza» che mette in evidenza la posizione passiva del curante, che infatti non prescriverà direttamente farmaci, né darà consigli o prescrizioni inerenti il comportamento, né indicherà soluzioni e problemi. La diagnosi poi comprenderà il curante, infatti avremo diagnosi relazionali, che passano attraverso l’analisi del transfert. (L’interpretazione è una diagnosi?)
Giacché il transfert evolve, avremo nel tempo una diagnostica multipla, perché osserveremo lo stesso oggetto, cioè un noi inteso come coppia paziente e terapeuta, da vari punti di vista, quindi una diagnostica multipla, ed in itinere, cioé che cambierà strada facendo.
Il primo orientamento è più teso a curare la parte, il sintomo, la disfunzione lasciando in ombra l’intero, sia esso inteso come individuo, gruppo o famiglia; il secondo tende al contrario ad accogliere la complessità del tutto lasciando in ombra le singole parti.
Quanto detto, nel suo voluto schematismo, nella difettosità di sfumature ed intrecci , possiede almeno un pregio, che è consentire uno spazio di risposta alle domande della premessa.
Ricordiamole. Tempi, costi, risultati e domanda, contesto, orientamento. Cominciamo dall’ultimo, perché è quello che abbiamo cercato di definire fino ad ora, cioè l’orientamento medicalistico l’abbiamo visto, e abbiamo anche visto l’orientamento analitico relazionale, attraverso le definizioni, accentuatamente definitorie, di questi orientamenti, che, per compenso, mi consentono di gettare una luce sulle restanti questioni.
Intanto la domanda, che, se non è manipolata ma semplicemente accolta ed aiutata ad evolversi trova un suo naturale collocamento. Mettere l’accento sul segmento disfunzionante nel tutto, oppure sull’insieme che contiene il segmento malato è sufficiente ad indicarci il ventaglio offerto dal primo contenitore rispetto al secondo.
Il contesto, i costi e i tempi sono tentato dal trattarli insieme.
Questo perché il contesto tende a contenere i due termini successivi. Così come Set e setting del nostro lessico abituale.
Il pubblico ed il privato, ospedali e aziende sanitarie, piuttosto che cliniche, poliambulatori o studi privati, offrono servizi diversi che sono in competizione fra di loro.
I costi del pubblico sono a carico della comunità, quelli privati sono oneri del singolo cittadino.
I tempi poi tendono generalmente ad essere più brevi o più diluiti in ambito pubblico e più lunghi o a maggior frequenza in quello privato.
Per ultimo, ho lasciato i risultati, vale a dire la valutazione del nostro lavoro, chiamato a misurarsi con il bacino della sofferenza da cui è scaturita la domanda da cui è iniziata l’ultima parte del nostro discorso.
I risultati, nella prima area, saranno prevalentemente orientati al rimettere in funzione, cercare il punto dolente, diagnosticarlo, cercare una cura, in un tempo il più limitato possibile e a costi contenuti.
L’equilibrio diagnosi/cura con tempo e denaro si costruisce come protocollo su cui inserire risultati e percentuali che, accuratamente studiati daranno indicazioni sul miglioramento dell’intero sistema curante. Che rapporto ci sia tra individuo e protocollo è oggetto di discussione.
Nella seconda area i risultati saranno diretta conseguenza del differente tipo di ascolto (alla domanda), e ogni individuo tenderà a parlarci degli scricchiolii della sua esistenza, del rincorrere i propri errori, della poca coscienza di sé e dell’incapacità di vivere pienamente le proprie emozioni, della difficoltà ad abitare lo scorrere del tempo e tanto altro ancora. L’insieme di tutto ciò si costituisce come un processo lungo e costoso. Dove, in luogo del protocollo, troviamo il sorriso di un paziente o l’allegria di una famiglia o le singole nascenti progettualità all’interno di un gruppo.
Che rapporto ci sia tra l’assenza di un protocollo e la necessità di valutazione è oggetto di discussione.
Ciò detto, mi aspetto che chiunque navighi quotidianamente nel mare e nelle profondità del pensiero complesso potrebbe o potrà muovermi innumerevoli critiche ed evidenziare altrettante numerose compenetrazioni e sovrapposizioni, oppure contaminazioni e integrazioni, tra il primo orientamento ed il secondo ed in seguito a ciò identificare un terzo contenitore o ponte fra i primi due ed altro ancora.
Ben venga se un sommarsi di definizioni semplici promuove un pensiero complesso. Tuttavia io ogni giorno vado constatando, con qualche umiltà, quanto il nostro lavoro sia complicato ed incespicante di fronte alle bellezze armoniche della complessità.
E quindi non bisogna dimenticare che è bene seguire – nel divenire terapeuti – la stella polare della complessità, senza dimenticare quanto ne siamo, quotidianamente, molto lontani.
LE RELAZIONI DEI RECORDER
Recorder: Stella De Lisi
Il recorder è un componente del gruppo (in questo caso con diritto di parola) che si assume il compito di prendere nota di ciò che accade nel gruppo e, successivamente, di stendere una relazione scritta.
Secondo la tecnica gruppoanalitica quello del recorder si configura come uno dei possibili punti di vista riguardante lo svolgimento del lavoro del gruppo; inoltre la stesura del protocollo in un momento successivo all’incontro può fornire una visione «in differita» rispetto alla quale le dinamiche vissute e osservate nel gruppo possono assumere ulteriori colorazioni.
GRUPPO III E IV ANNO PSICODRAMMA
Una giornata di riflessione teorico-epistemologica sulla formazione e sull’individuo in formazione ha permesso, ad alcuni, di valicare quella dimensione potenzialmente artistica che consente la creazione di qualcosa di nuovo – vuoi una nuova possibilità di fare uso della parola non ‘’sterile», vuoi un sentimento di appartenenza che rappacifica e dà significato alle scelte fatte. La curiosità, quale elemento prioritario per poter parlare di attitudine all’apprendimento, ha accompagnato l’intero incontro.
La necessità di definirsi ponendo dei limiti, esplicitando delle differenze, lasciando intravvedere la propria specificità, se da una parte consente di costruire un pensiero che distingue noi dagli altri, dall’altra accentua il dubbio di dove finisce la propria individualità e dove inizia la propria professionalità. Che cosa significa parlare di identità personale e di identità professionale? Sono entrambi concetti sociali che vanno ridefiniti nella loro natura convenzionale, mutevole ed arbitraria, riconoscendo i1 ruolo determinante dei contesti osservativi e degli assunti propri di tali contesti, quali una scuola di specializzazione in psicoterapia con i suoi modelli teorici.
La parola ed il corpo sono risultati essere le specificità di linguaggio della gruppoanalisi e dello psicodramma analitico.
Qualcosa ha permesso il superamento dell’etnocentrismo: uno sguardo che è sempre alla ricerca dello sguardo dell’altro. Non si può più parlare di qualcuno che osserva qualcun altro, ma di un campo di osservazione dove ciascuno è attore e si pone in un processo d’integrazione – e non di assimilazione – per dar vita a nuove identità, o meglio, a «pluralità identitarie».
Il corpo, nelle sue varie accezioni biologiche, fenomeniche, politiche o sociali, si è imposto come luogo teorico decisivo in grado di contendere la centralità in precedenza occupata dall’analisi testuale e dallo studio delle pratiche discorsive (Beneduce, Il corpo e le sue parole, vol. III, Treccani, 1999).
Il corpo, depositario di ricordi incarnati, spazio privilegiato per sentire e «giocare», testimonia come pensare l’identità sia possibile solo a condizione di inserirla in una materia, in una relazione,in una storia.
Ed ecco che riemerge 1’uso della parola, ma non più centrale, per parlare della propria specificità, costruita adottando categorie attraverso un’auto-attribuzione, nel tentativo di escludere la dimensione strumentale e manipolatoria, presenti laddove ancora si parla di osservatori e attori. L’identità cessa di esistere come categoria stabile nel tempo e nello spazio, per collocarsi in una prospettiva di evoluzione e come limite arbitrario che separa un dentro e un fuori, sempre incerti quanto al loro confine.
Ma non so1o l’identità è in divenire, lo è anche la formazione che rimane il nostro tema di riflessione.
Come definire e valutare un processo di formazione che vuole prevedere il passaggio di tappe: dal fare formazione, all’essere in formazione, al costruire una formazione tollerando la sospensione della risposta?
La formazione si produce e si consuma all’interno della relazione, spesso si tratta di un prodotto intangibile ma non per questo non valutabile. Bisogna accettare la sfida; il nostro gruppo di lavoro l’ha accettata affrontando il cambiamento.
Ma di quale cambiamento stiamo parlando e soprattutto che cosa cambia? Cambiano i contenuti trattati, cambia l’assunzione di responsabilità rispetto ai contenuti portati, ma soprattutto cambia il valore del tempo. E’ possibile darsi un tempo, un tempo per riflettere sul «prendere», per consentire un’organizzazione delle informazioni che evita una loro marmorizzazione.
Qualcuno ha parlato di incontro di convergenze: «… ad un certo punto è possibile una comunicazione tra cose che prima, in quanto diverse, non potevano comunicare», non solo, qualcun altro ha aggiunto: «distinguere ciò che prima sembrava uguale». Si sta intravvedendo non solo la tolleranza alla differenza, ma anche un suo superamento, che permette di entrare nel pericoloso, ma non per questo meno prezioso, spazio al diritto all’indifferenza; che consegue ad un processo di decodifica dei significati, dove ciascuno può, di volta in volta, inserirsi in un contesto secondo propri e nuovi significati, senza per questo annullare un’origine, che quando presunta, spesso tende ad appiattire le appartenenze.
L’acquisizione di strumenti per effettuare un simile percorso passa necessariamente da una fase di imitazione e riproduzione della tecnica trasmessa, lasciando, laddove è possibile, spazi a picchi creativi, dove qua1cosa di nuovo ha preso forma.
Abbiamo bisogno di punti fissi – stella polare – dai quali sganciarci per rincorrere stelle comete capaci di farci perdere la strada.
LE RELAZIONI DEI RECORDER
Recorder: Mara Gallo
Il recorder è un componente del gruppo (in questo caso con diritto di parola) che si assume il compito di prendere nota di ciò che accade nel gruppo e, successivamente, di stendere una relazione scritta.
Secondo la tecnica gruppoanalitica quello del recorder si configura come uno dei possibili punti di vista riguardante lo svolgimento del lavoro del gruppo; inoltre la stesura del protocollo in un momento successivo all’incontro può fornire una visione «in differita» rispetto alla quale le dinamiche vissute e osservate nel gruppo possono assumere ulteriori colorazioni.
GRUPPO III E IV ANNO GRUPPOANALISI
Il lavoro del gruppo si avvia a partire dalle suggestioni offerte dal conduttore circa l’esistenza di un nucleo profondo di paure legate all’incontro che si rende possibile ad un livello co-riflessivo, un incontro autenticamente creativo in assenza di un’asimmetria difensiva. Possiamo così immaginare una formazione che si accompagna a calore, ad emozioni e significatività, le quali vanno paradossalmente e necessariamente coniugate con un ‘codice’, cioè l’insieme di tempi, luoghi, aspetti amministrativi e valutativi. Come unire creatività e riconoscimento interno ed esterno della scuola di formazione?
Il tema della formazione si intreccia spesso con quello della paura e con quello delle specificità individuali. Formazione è trasmissione di competenze e, al tempo stesso, affinamento e potenziamento di capacità individuali, non conoscibili in modo precodificato. Proprio queste ultime favoriscono e aprono all’incontro e alla relazione, ma sono inizialmente sentite come destabilizzanti dal ‘formando’. Come è possibile, inoltre, una valutazione rispetto alle specificità individuali originali?
L’identità di psicoterapeuti in formazione è data allora dalla compresenza e dall’intreccio di più livelli (conoscenza, tecnica, caratteristiche personali..). La creatività consiste nell’integrazione felice ed originale di tali molteplici aspetti, e la formazione diventa il ponte di tale integrazione. Un ponte su cui è possibile avanzare, partendo dall’immagine di una scuola-nicchia, costituita a sua volta da molteplici nicchie protettive (istituti, consociate, tipo di training, aree di applicazione e lavoro..), che ostacolano al contempo lo scambio, ma che difendono da un’immagine di psicoterapeuta percepita così vasta e di difficile definizione da intimorire. La scuola-nicchia è il luogo dove prevale la fiducia a priori nella guida, con la voglia/paura di affidarsi. L’identità professionale in sviluppo evolve quindi da un’immagine fornita dall’appartenenza ad una scuola di formazione e raggiunge l’autofondazione: un’identità di psicoterapeuta autolegittimata a partire dall’immagine di sé-psicoterapeuta internalizzata. Si tratta di ‘sentirsi’ psicoterapeuti, indipendentemente dalle etichette conquistate e riconosciute. Lo spazio che ora è occupato non è più una nicchia che imprigiona, ma un luogo aperto di libertà, che si accompagna inevitabilmente alla paura che ciò può fare.
L’autoriconoscimento si fonda sul dialogo continuo tra modello formativo e tecnica da una parte e arte, potendo differenziare ciò che è dato, un sapere ‘versato’, da ciò che è soggettivamente elaborato. Arte è una parola che ricorre molto, è anche l’utilizzo consapevole degli strumenti appresi, che consente di chiamare una psicoterapia come tale perché la si sente tale. Si crea un asse dialogico tra riconoscimento esterno e etichette professionali da una parte – autolegittimazione e creatività dall’altra. La presenza di questi poli è visibile, a livello istituzionale, nella stessa scuola di formazione, che comprende, insieme alla possibilità di confronto co-riflessivo e creativo, altre caratteristiche organizzative che piacciono meno, ma stabilite da regole ministeriali e necessarie per un riconoscimento esterno.
‘Arte’ suscita le suggestioni più ampie e diversificate, discorsi astratti e estremi richiami alla concertezza, con i quali emergono le necessità, come l’esigenza di numerose supervisioni, intese come condivisione di un caso, possibilità di giocare dialogicamente ad un livello co-riflessivo, che è anche un modo di riconoscersi nel proprio modo di usare ciò che si è ricevuto dai formatori. Emerge il desiderio di apprendere attraverso il fare, con uno sguardo agli psicodrammatisti i quali vivono interiormente l’eccitazione dell’essere dentro una situazione nel loro training, situazione che affascina e induce timore. Tuttavia la scuola di formazione – che richiede sacrifici, tempo, impegno, coinvolge nella domanda – non è onnipotente, ha dei limiti e confini che rimandano anche alla responsabilità di chi è in formazione di cercare altrove ulteriori stimoli e risposte alle proprie esigenze.
L’identità di psicoterapeuti rimanda al discorso della scelta della specifica scuola: su cosa si pensava che si sarebbe fondato la nostra rappresentazione di psicoterapeuti Coirag quando abbiamo scelto la scuola di formazione? La molteplicità delle risposte non ci deve sorprendere. Ritorna la parola arte, che definisce uno spazio più aperto, complesso e molteplice che comprende l’aspetto più creativo della professione. Uno spazio che garantisce l’individualità, pur non legittimando il poter fare tutto. Come possiamo parlare dell’aspetto artistico nella formazione, attraverso quali strumenti?
Emerge un circolo della scelta: dopo una scelta iniziale del tipo di formazione che si desidera fare, per scegliere veramente è necessario ‘passare attraverso’ per poter fare a posteriori, in base all’esperienza che passa anche attraverso l’incontro con le specificità individuali dei formatori, una vera scelta.
Il tema ricorrente della paura apre una porta e lascia entrare in scena il ‘paziente’, che rimanda al momento in cui si è soli con lui. Allora la scuola di formazione appare come contenitore in cui condividere le emozioni e le questioni emergenti dall’incontro con lui, un’appartenenza che contiene. Da ciò la fantasia frequente di proseguire con gli incontri di gruppo nel momento in cui il percorso di formazione si avvia al termine legale-amministrativo. Tale ipotetica continuazione di un gruppo di appartenenza e discussione vede coniugarsi il binomio esperienza pratica e teoria. Se all’inizio della formazione si sente l’esigenza di confronto sulla pratica clinica, subentra in seguito il desiderio di teoria e aggiornamento continuo. Entrano in gioco le abilità a confrontarsi, condividere e far propria una teoria. Nel rispetto delle specificità individuali, e di fronte al paziente, tecnica e arte figurano insieme, come in una bottega dove la prima si accompagna a una teoria discutibile e discussa.
L’uso frequente della parola ‘arte’ lascia infine emergere e preferire il termine ‘artigianato’, un fare a mano a partire da un materiale già esistente, che ogni volta crea un prodotto diverso, artistico, artigianale, e non un’autorealizzazione di raffinata eleganza e purezza che tuttavia rimanda al rischio della manipolazione delle parole dell’altro. Artigianato richiama l’idea di avere le mani ‘dentro’, in pasta, guardare all’altro e chiedersi cosa succede, cosa si prova. Fare artigianato significa porre attenzione alla relazione con la specifica persona con cui si è in un dato momento, al cosa accade e come, con sensibilità ai modi di cambiamento peculiari di quella persona. Significa concretezza relazionale e parole non manipolate. E’ un interrogarsi insieme al paziente, con la possibilità e il desiderio di confrontarsi. La scuola di formazione diventa il piacere di una crescita che paradossalmente conduce al termine amministrativo lasciando trasparire quanta strada resta ancora da percorrere!
LE RELAZIONI DEI RECORDER
Recorder: Rosario Tomasetta
Il recorder è un componente del gruppo (in questo caso con diritto di parola) che si assume il compito di prendere nota di ciò che accade nel gruppo e, successivamente, di stendere una relazione scritta.
Secondo la tecnica gruppoanalitica quello del recorder si configura come uno dei possibili punti di vista riguardante lo svolgimento del lavoro del gruppo; inoltre la stesura del protocollo in un momento successivo all’incontro può fornire una visione «in differita» rispetto alla quale le dinamiche vissute e osservate nel gruppo possono assumere ulteriori colorazioni.
GRUPPO I e II ANNO GRUPPOANALISI
Composizione del gruppo: 23 persone appartenenti al primo e secondo anno, sia Apragi Gruppoanalisi che Laboratorio di Gruppoanalisi.
Tema: «La questione dell’identità professionale nella parte di percorso formativo del 1° biennio».
Struttura per temi principali:
– Apertura del gruppo: le domande
– Il tempo
– L’identità professionale
– La complessità
– Il tempo-due; ovvero la continuità
– Lo spazio
– La valutazione
– L’esperienza e la diseguaglianza
– (E l’identità?)
– Il qui ed ora
– Una immagine
– Puntualizzazioni
Il gruppo del pomeriggio prende le mosse dalle domande scaturite al termine delle tre relazioni del mattino (Dr.ssa Simonetto, Dr.ssa Gentinetta, Dr. Calcagno). Tali domande possono in parte essere così riassunte:
1) Che cosa vuol dire essere professionisti della parola e della manipolazione, perché questo non diventi manipolazione della domanda?
2) Qual è il significato del transfert nel processo formativo?
3) La valutazione degli psicoterapeuti e la valutazione della psicoterapia: con o senza protocollo?
4) Sul versante dell’etica, cosa chiediamo a noi stessi e ai docenti?
5) Se la risposta alla precedente domanda può essere sintetizzata con la parola «riconoscimento», quale peso ha nel mondo del lavoro reale il «riconoscimento» rispetto alla psicoterapia?
Il gruppo muove inizialmente in maniera abbastanza timida e spaesata rispetto alle domande, forse spiazzato dall’eventualità di collocarsi nella posizione di rispondere a delle domande piuttosto che nella posizione di formularle, se non addirittura nella posizione in cui viene sollecitato a fare domande che poi si faranno un po’ attendere.
Il tutto si traduce nell’essere spaesati, confusi, nel caos.
La Conduttrice non tarda a sottolineare come gli interventi dell’apertura del gruppo si collochino nell’area che il Dr. Calcagno ha ipotizzato come monologica, laddove esiste una domanda che cerca una risposta, ma allo stesso tempo manca la possibilità di cercare insieme la domanda.
Emerge sull’onda di questa sollecitazione l’idea che esista una stratificazione della domanda, che è forse diversa per i differenti anni di corso, ed una differenziazione della domanda stessa, poiché ognuno ha la sua o le sue; anche la domanda, dunque, evolve da un piano monologico ad un piano dialogico ed il gruppo porta alla luce il suo primo tema: il tema del tempo.
Esiste un tempo della domanda o meglio un essere in tempo per la domanda.
In questa fase il tempo non è vissuto dal gruppo in maniera coerente: è un tempo frammentato, un tempo un po’ minaccioso, portatore di ansia.
Un membro del gruppo, riferendosi alla sensazione di essere stata chiamata a distruggere o rifondare qualcosa che non ha ancora costruito dice: «È un compito anacronistico».
L’Anacronismo rimanda ancora all’interrogativo che esista, o meno, un tempo per essere o per fare: un essere a tempo o fuori tempo.
Essere in tempo per fare cosa?
Trovarsi in tempo per essere chi?
Il tempo, minaccioso, richiede di essere arginato, contenuto, regolato. Solo definendo essere chi per fare cosa è forse possibile dare forma al tempo; dunque sembra che la domanda sull’essere a tempo ruoti intorno al problema dell’identità professionale.
La ricerca di un tempo più rassicurante attraversa il tema dell’identità professionale, anch’esso frammentato o frastagliato come il tema del tempo – forse anch’esso vissuto come generatore di ansia – e fatto di edificazioni, crolli, ricostruzioni.
Una ragazza del secondo anno ricorda come durante l’anno precedente vedesse gli allievi del 4° anno come se fossero in lontananza, come aspirasse a somigliare loro.
Oggi stesso, una ragazza del quarto anno ha involontariamente demolito tutte le sue costruzioni.
Il crollo delle edificazioni getta nel caos e spaventa e disorienta, tuttavia non tutti hanno paura del caos; per qualcuno il caos è espressione della complessità.
Parlando di un concetto di complessità se ne dice essere un continuum, dove non c’è un giusto né uno sbagliato, né un inizio né una fine.
C’è un continuum nella complessità, nella logica della complessità; forse una traccia che giorno dopo giorno diventa sedimento nel metodo della scuola.
Il tempo ora è invocato come alleato, come garante di un percorso che si svolge in maniera sequenziale, diacronica.
Paradossalmente, la complessità ha unificato il tempo, prima minaccioso e frammentato, nel tema del gruppo, contenendolo e dandogli forma. Forse dovremmo chiamarlo tempo-due, o forse tempo-secondo.
Ad ogni modo è un tempo che segue ad un altro tempo, come al primo anno procede il secondo… o come al primo biennio procede il secondo.
Tuttavia, affinché la complessità non si confonda con il caos, perché la continuità nel tempo garantisca il sedimentarsi delle conoscenze, è necessario imparare a metacomunicare, a prendere le distanze.
Il gruppo riporta disorientamento rispetto a questa necessità di prendere le distanze: ora che si è raggiunto un lembo di terraferma, bisogna di nuovo uscire in mare.
Le distanze si trasformano nel tema dello spazio.
Nel prendere le distanze il gruppo cerca lo spazio all’interno del quale porre domande ed inserire concetti. Oltre al sedimento dovuto alla continuità nel tempo della scuola è necessario uno spazio, lo spazio della lezione, lo spazio del seminario, che in fondo è però anche lo spazio del gruppo. Ma lo spazio del gruppo è anche circolare… e quando lo spazio diventa circolare, non è più così facile tenere le distanze: non ci si può più sottrarre all’attenzione del docente.
Un docente rispetto al quale non è più possibile sottrarsi pone al gruppo il problema della valutazione.
Naturalmente è la valutazione di un percorso breve, perché per alcuni si tratta in fondo per il momento di soli tre mesi… ma si tratterà veramente solo di tre mesi?
Da un lato c’è l’idea dell’essere valutati, che in parte corrisponde anche all’idea di essere giudicati. In altra misura emerge in maniera esplicita il problema dell’autovalutazione rispetto al proprio percorso individuale. In questo accade di intrecciare i vissuti personali con il percorso del gruppo, ed anche di confrontare la propria esperienza.
Nell’esperienza si fonda il concetto della disuguaglianza; per quanto simili possano essere i percorsi individuali, l’esperienza sancisce un diverso percorso interiore, un differente bagaglio di competenze ed emozioni.
La Conduttrice sottolinea: «Pur essendo nella stessa scuola non siete tutti uguali…»
L’immagine che il gruppo produce quasi istantaneamente è portata da un membro come l’idea di trovarsi in una città «diversa» – straniera? – con il solo bagaglio della propria lingua.
Dobbiamo quindi acquisire una nuova lingua, ma non è vero che chi parla meglio – che ha una esperienza più grande – si districa prima.
La formazione è una città «diversa».
In questa fase, sembra che, parlando di disuguaglianze nelle esperienze, il gruppo cerchi di definire la sua identità, rispetto soprattutto a ciò che non è, oppure a ciò che non si sente di essere.
Innanzitutto non è corpo docente ed ancora una volta soffre di questo e probabilmente mima un attacco verso chi conduce. Così ritorna nuovamente all’immagine della città «diversa», per puntualizzare quanto si complichi – e cioè divenga complessa – la situazione se, oltre a dover imparare una nuova lingua, qualcuno ti chiede anche di aiutarlo ad insegnartela…
Oltre a non essere corpo docente il gruppo è nella posizione di non essere ancora corpo terapeutico. L’identità è anche identità professionale, dunque se l’identità si fonda sulla disuguaglianza e per contrasto, il contrasto emerge ed emerge sotto forma di critica verso chi non si è.
Il gruppo ha espresso «chi non è» o quantomeno ha cercato di farlo, e la Conduttrice propone lo sviluppare di una domanda: «e voi?».
L’esortazione spinge non a definire chi non si è o non si è ancora, ma chi si è già.
Sono in definitiva quattro le coordinate per definire dov’è un punto. Tre si riferiscono alla posizione nello spazio, una alla collocazione nel tempo.
Il tema proposto in chiusura riguarda dunque le coordinate spazio-temporali, il qui e ora della seduta: lo spazio-tempo in cui definire chi si è.
Il livello gerarchico genera una differenza che è anche distanza, spazio che va colmato da ogni intervento nel luogo della sospensione: qui ed ora.
Il gruppo volge alla chiusura con un’immagine: quella di uno scultore famoso che prima di iniziare le sue opere in metallo chiede la consulenza di operai e tecnici esperti e specializzati in acciai speciali.
Alla fine qualcuno puntualizza che il tempo-due richiama la continuità ed il gruppo non si sofferma sul carattere di questa continuità.
La continuità è una domanda?
La continuità è una risposta?
La continuità si situa su di un piano monologico? Dialogico? Su di un piano della domanda?
E di conseguenza, su di un piano di passaggio dei saperi, su di un piano di reciprocità o su di un piano coriflessivo?
La continuità nell’identità professionale è continuità nella complessità è continuità nel tempo.
La continuità è la continuità nell’insegnamento.
LE RELAZIONI DEI RECORDER
Recorder: Maria Teresa Lerda
Il recorder è un componente del gruppo (in questo caso con diritto di parola) che si assume il compito di prendere nota di ciò che accade nel gruppo e, successivamente, di stendere una relazione scritta.
Secondo la tecnica gruppoanalitica quello del recorder si configura come uno dei possibili punti di vista riguardante lo svolgimento del lavoro del gruppo; inoltre la stesura del protocollo in un momento successivo all’incontro può fornire una visione «in differita» rispetto alla quale le dinamiche vissute e osservate nel gruppo possono assumere ulteriori colorazioni.
I E II ANNO PSICODRAMMA
Riflettere sui temi della manipolazione, della valutazione, dell’etica e del rapporto con l’istituzione: questo il «mandato» che il gruppo ha affrontato riflettendo dopo le relazioni.
L’interrogativo, fin dal primo intervento, è rimbalzato di tema in tema, soffermandosi di volta in volta su:
– la manipolazione come pericolo insito nell’uso della parola
– il riferimento ad un modello come scelta consapevole o irrigidimento teorico
– la valutazione come concetto connesso a quello di orientamento o a quello di giudizio
– il rapporto con l’istituzionc in riferimento al binomio «richiesta di competenze di cura»- «offerta di una risposta adeguata alla domanda».
Il gruppo si è «schierato», ad affrontare il mandato, in una dimensione a gruppi contrapposti: il primo anno da un lato, il secondo dall’altro, il conduttore tra i due, uno spazio vuoto di fronte a lui, in attesa dei ritardatari che arriveranno, poi, in un unico gruppo.
Nel quadrato iniziale le prime parole sono all’insegna dell’identificazione in un modello, quello del proprio gruppo di formazione, sentito come gruppo di appartenenza. L’occasione è quella data dalla percezione di contrapposizione tra l’astrattezza della parola e la concretezza delle emozioni.
Il gruppo sembra considerare la parola come lo strumento peculiare di un modello «estraneo», quello di un altro tipo di formazione, di un altro gruppo di «pari»che hanno scelto un diverso riferimento e altri conduttori.
Anche la relazione del mattino è percepita nel segno e nel modello della parola, così come lo è il conduttore del gruppo.
Emerge una critica: la parola conduce a teorizzazioni difficili che sembrano separate dalle emozioni. Si fa strada il timore che, nel passaggio tra emozione e parola, venga meno il significato, si produca una mancanza che apre la via alla possibilità di manipolazione e che il potere della parola possa essere usato per soffocare l’aspirazione ad esprimersi dell’emozione. Il proprio gruppo di appartenenza formativa è sentito, per contro, come garante della circolazione dell’emozione e ricco di potenzialità operativa.
Gli interventi si sviluppano tra l’espressione di un disagio e l’emergere di un quesito. Il disagio è riferito da alcuni componenti del I° anno, e riguarda il piano teorico, descritto come difficile e separato dal vissuto reale delle persone; il quesito è posto da allievi del II° anno, che si interrogano sulla possibilità di trasformare un sapere teorico in un lavoro che può essere riconosciuto all’esterno.
Ora il modello è messo in relazione con lo scorrere del tempo: la validità di un modello può durare nel tempo? Deve essere unico e immutabile o può essere elaborato individualmente?
Si avvicendano la sensazione di confusione e la percezione di complessità che riguardano anche l’ampio spettro di domande che l’esterno pone (il riferimento è alle istituzioni sanitarie). Ci si interroga su come valutare la propria competenza ad offrire una risposta adeguata. Emerge il desiderio di non essere soli in questa ricerca di relazione tra ciò che avviene»dentro»e quello che è richiesto «fuori»: dove «dentro» e «fuori» vanno via via contrapponendosi, tra il processo formativo e le richieste istituzionali esterne, tra il divenire individuale e i diversi modelli formativi possibili, tra il percorso individuale e le imposizioni istituzionali della stessa scuola di specializzazione.
Qualcuno si chiede se sia possibile individuare una propria direzione tra queste contrapposizioni. Viene ripresa la metafora della bussola. La domanda è: perché proprio la bussola? Anche lo strumento che indica la direzione deve essere uno solo per tutti? Si ricorda che i naviganti hanno utilizzato anche il sestante e il cabotaggio: i livelli di individuazione di un percorso possono quindi essere diversi. Come ci si può sentire a questi diversi livelli? La direzione è dell’individuo o del gruppo? È necessaria una risposta a questi interrogativi o così facendo si mette in atto una funzione di giudizio che esclude una possibilità di muoversi ai vari livelli e di restare individuo in un gruppo?
Negli interventi si fa strada l’esigenza di una momentanea sospensione di giudizio, a garanzia del fatto che il percorso formativo personale, appena iniziato, non diventi anch’esso oggetto di giudizio.
Il riferimento al proprio modello formativo è, però, accompagnato anche dal timore di incorrere nella rigidità di posizione e di cadere nella gabbia di una conoscenza che diventa scontata e non lascia spazio al confronto.
Ci si chiede se sia legittimo pensare all’esistenza di un modello migliore di altri. Il desiderio è quello di un modello che garantisca la relazione tra emozione e parola e nel quale sia possibile un movimento tra l’una e l’altra.
L’interrogativo si sposta sul movimento: è peculiare del modello o nasce dall’interno di un individuo? È il modello che lo determina o semplicemente lo accoglie e gli dà spazio? Compare anche il dubbio riferito alla relazione tra curante e curato e al rischio di imporre un modello e un movimento, quasi una forma di plagio. L’esigenza è quella di trovare un piano in cui le parole abbiano un senso indipendente dal modello e possano venire accolte nella loro relazione con l’emozione che le ha prodotte.
Il quesito sembra carico di implicazioni gravose e gli interventi che seguono si riferiscono a sentimenti contrastanti: dal desiderio di sfondamento di stabilità considerate statiche, all’interrogativo sulla natura della «tecnica», la cui interpretazione chiama in causa l’individuo. La «tecnica» sembra ora meno potente di per sé e il punto di vista si sposta sulla relazione tra individuo e «tecnica», come relazione della quale l’individuo può assumersi la responsabilità. Questa posizione comporta, però, per alcuni, la necessità di riflettere sul significato di identità che, a sua volta, rimanda alla contrapposizione tra l’individuo e gli altri e ai due rischi opposti della confusione e della separazione.
Sulla separazione si condensano le considerazioni che portano ad individuare le potenzialità del conflitto: dal conflitto può nascere qualche cosa. Nella capacità di separarsi viene anche vista la possibilità di prendere le distanze da ciò che è ormai ben conosciuto: si può appartenere ad un ambito ma lasciare la porta aperta all’esterno. Questa posizione viene sentita come importante anche nella relazione di cura, e il rischio di manipolazione sembra, allora, meno pesante. Prescindere da una modalità precostituita rigidamente può significare anche potere abbandonare il giudizio a priori, modellato su una tecnica e usato per etichettare l’altro esclusivamente in un protocollo di sintomi.
Il gruppo, iniziato, con la contrapposizione, nella dimensione del quadrato, esprime ora una circolarità di interrogativi, arrivando a chiedersi se sia possibile l’utilizzo non rigido di un modello conosciuto e l’attenzione ritorna sul problema della formazione. Si parla di possibilità di «contaminazione» nell’incontro con altri modelli formativi. Si riflette sul fatto che la contaminazione comporta il rischio di perdersi, di perdere l’orientamento sicuro, ma anche la possibilità di conoscere qualche cosa di diverso e di contenere il pericolo dell’irrigidimento.
Il gruppo si sente ora soggetto e oggetto della propria riflessione e si chiede se ciò di cui si è fin qui ragionato non riguardi il gruppo stesso e il percorso compiuto nelle due ore di lavoro. Se ne ripercorrono le tappe: dopo l’inizio di opposizione al mandato, rifiutato come astratto e razionale, il procedere della discussione ha attraversato vari livelli, seguendo gli interrogativi che, nascendo via via all’interno del gruppo, erano sentiti come autentici e reali. Quegli interrogativi, però, sembrano ora molto vicini a quelli proposti dal mandato. Forse l’essersi dati la possibilità di trasgressione ha, in realtà, liberato un movimento verso il cambiamento, dalla posizione iniziale di contrapposizione e rifiuto ad una posizione di riflessione, capace di accordare la realtà a quegli stessi interrogativi, riconosciuti ora anche come propri.