Nadia Benedetto, Adriana Corti, Saura Fornero, Alma Gentinetta, Cristiana Novero, Luisella Pianarosa, Alessandra Simonetto
Maria Piera Mondo, Federica Nespole, Sabrina Ramonda, Gabriella Rosone, Claudia Sola
Il ventiduesimo numero dei Quaderni di Gruppoanalisi raccoglie i contributi di tutti coloro che, a partire dal 2018 fino ad arrivare alla fine del 2020, hanno partecipato, curato e realizzato i Seminari dell’Associazione Apragi.
Una complessità ed eterogeneità di voci, di “culture in dialogo”, potremmo dire riprendendo il titolo del Seminario del 2018, in continuità con la complessità e la multidisciplinarietà, caratteristiche fondanti del pensiero di A.P.R.A.G.I.
L’attuale momento storico impone quanto meno di rivedere i concetti di malattia e di cura: le équipe sanitarie operanti nel pubblico e nel privato hanno dovuto riorganizzare le loro mappe terapeutiche, riorientare i processi di cura, ridefinire i setting, trasferire nel virtuale terapie individuali e di gruppo.
Nel corso della preparazione del numero abbiamo attraversato una dolorosa perdita, la scomparsa della dottoressa Manuela Tartari, a lei va il nostro ricor- do e la nostra gratitudine per la ricchezza dei contributi portati in occasione del Seminario del 2018.
Gruppi che hanno dovuto ripensarsi e ricostruire una metodologia per po- ter garantire la continuità, l’efficacia e il significato della cura. Il Seminario del 2019, tenutosi all’interno della scuola COIRAG in presenza (terminolo- gia un tempo desueta, ma ora necessaria) aveva avuto proprio l’obiettivo di illustrare le diverse tipologie di dispositivi di cura gruppali, trasmettendo – citando la Presidente Apragi all’epoca in carica dott.ssa Novero – “la fiducia in uno strumento, il gruppo”. Parole quanto mai preziose oggi e ricordate nel Seminario Apragi del 2020, in cui attraverso il sogno il gruppo ha potuto prendersi cura dei suoi legami e processi, autorizzandosi, attraverso il sogno, a pensare insieme.
Si tratta quindi di un numero ricco e denso, che a partire dalla riflessione sulla corporeità, passerà attraverso il focus sulle matrici culturali, transgene- razionali, per poi concludersi con l’analisi della dimensione onirico-simbolica del sogno.
Quaderni di Gruppoanalisi 6 Il fil rouge sottostante è rappresentato dallo strumento gruppale: il piccolo gruppo, il gruppo mediano e quello allargato. Matrici costitutive della mente, apparati di cura, dove il pensiero può avere cittadinanza attraverso le relazioni.
Questo numero è ancora una volta un lavoro che ha richiesto la consueta partecipazione e collaborazione tra numerosi soci di A.P.R.A.G.I., che confer- ma la solidità dei legami e delle relazioni. Per questo ringraziamo il Presidente Alice Mulasso, Alma Gentinetta, Sandra Simonetto, Adriana Corti, Saura For- nero, Cristiana Novero, Manuela Serra, Luisella Pianarosa.
Il seminario Apragi del 2018 “Straniero al mio corpo: salute, malattia e cura. Culture in dialogo” è stato pensato dall’esigenza di confrontarsi con il tema dello “straniero”, elemento interno nelle nostre menti (potenziale sabo- tatore dell’equilibrio) e/o elemento esterno rappresentato all’epoca dai flussi migratori che sbarcavano incessantemente sulle nostre coste. La riflessione sul concetto di salute, malattia e cura e la necessità di un dia- logo tra culture ci hanno riportato al contesto attuale, dove il Covid-19 si è pa- lesato sui nostri territori, portandoci prepotentemente la realtà della malattia, della cura, facendoci entrare in dialogo, prima che con il pensiero o la cultura, con elementi corporei, estremamente concreti, come corpi sofferenti, coperti da mascherine, igienizzati e persino isolati. In apertura di seminario la dott.ssa Gianaria parla di “parti straniere dentro di noi”, sconosciute e inattese, che incombono nell’oriente della nostra mente, dove è necessario un confronto con la diversità. Ricordando Freud la malattia era descritta come sintomo di una frattura tra l’uomo e la società, parlando di effetti della globalizzazione tra cui la standardizzazione del pensiero. Questi temi, all’epoca del seminario, attentamente sollecitati pensando alle matrici culturali di ognuno e all’incontro con persone traumatizzate prove- nienti da altri mondi, oggi risuonano fortemente con una differenza di termi- nologia che con sé ha portato la pandemia: con quali virus interni od esterni ci stiamo relazionando, quali riattivazioni traumatiche sono in corso, quali sono i nuovi capri espiatori su cui proiettare? La comprensione di come funziona la mente relazionale va pensata in connessione con l’analisi del contesto, diceva la collega, in un’epoca, oggi, che vede gli attacchi al pensiero in prima linea, come conseguenze di una forte angoscia dilagante. Il tema della corporeità, che prevede anche la riflessione sull’attacco al cor- po, è ben stato portato e sviluppato dal Professor Remotti nel suo intervento, dove ha connesso elementi dell’antropologia, in particolare della persona, alla psicoanalisi. A partire dalla disamina del concetto di essere corpo e di avere corpo, si è infatti arrivati a concepire la persona come molteplicità di rela- zioni che intratteniamo, dove il nostro essere dipende anche dal rapporto di affinità e parentela col resto della natura. Una concezione della mente, quindi, squisitamente relazionale, dove sono le funzioni di coordinamento quelle che contraddistinguono il pensiero. Con la dottoressa Tartari si è aperta una riflessione sui flussi migratori e su cosa capita quando i sistemi di riferimento culturale vengono messi in discus- sione, vengono meno, quindi le impalcature solitamente messe in atto per dare senso ai fatti intimi della vita. Come si ristrutturano i sistemi difensivi? Quale cura del pensiero controtransferale noi clinici dobbiamo avere confrontandoci con utenti di differenti culture? Interrogativi preziosi, che ci impongono un cambiamento, il ripensare quindi al nostro modello di cura e di genitorialità e ha affermato fortemente il rispettare e tutelare i diritti della persona, in parti- colare dei minori e delle categorie più fragili. La fragilità è una parola che risuona, rileggendo con commozione il con- tributo della dottoressa Tartari. Con commozione risuonano le sue parole, ben rievocate dalla riflessione della dottoressa Simonetto, sui lutti migratori che si trasmettono ai figli, e sulla possibilità di dare narrazione e, quindi, sollievo e cura attraverso la relazione e la parola. Ed è questo proprio ciò che vogliamo proporre in questo numero, attraverso la narrazione del suo intervento, in una cornice di scambio non solo culturale, ma anche profondamente affettivo e denso. Riprendendo le parole della dottoressa Novero che ha aperto il seminario Apragi del 2019 “Large, Medium, Small group: una mappa per costruire gruppi”, tale occasione formativa ha avuto l’obiettivo di
“presentare e riflettere sulle esperienze che sono sia cliniche sia comunita- rie, trasmettere in maniera chiara un metodo e soprattutto trasmettere ai partecipanti la fiducia in uno strumento, il gruppo, che declinato in setting differenti e pensato intrinsecamente costitutivo del mentale, possa essere inteso come dispositivo che promuove l’essere e il fare una professione responsabilmente intesa, sia essa applicata alla clinica sia essa pensata per interventi comunitari”.
Le relazioni portate hanno presentato diverse forme e tipologie di intervento gruppale: dal piccolo gruppo psicoterapeutico (dottoressa Serra), passando per il gruppo mediano psico-sociale (dottoressa Gianaria) e concludendosi con il Gruppo Allargato (dottoressa Corti, dottoressa Mulasso). Attraverso la dimensione gruppale il pensiero e lo scambio relazionale posso- no prendere e avere cittadinanza nell’epoca dei muri e delle intolleranze, dove è necessario analizzare il contesto in cui ci muoviamo, ricordandoci, come sostiene Foulkes che “ciò che è all’interno è all’esterno. il sociale non è esterno ma molto interno
e penetra la parte della personalità individuale”.
La collega ci porta generosamente una vignetta clinica riguardante il gruppo di psicoterapia che conduce in una cooperativa sociale, dove attraverso la risonanza ed il rispecchiamento con l’altro è possibile vedere ciò che è all’interno, dove è possibile l’attivazione di un processo di metabolizzazione dell’esperienza. Andando controcorrente circa quello che osservava Bollas
la tendenza contemporanea a puntare sull’operatività e la performance veloce
nel gruppo di psicoterapia c’è la possibilità di elaborare contenuti inconsci e aspetti cristallizzati delle matrici personali dei partecipanti, di rinnovare fidu- cia e speranza in nuove forme relazionali, più nutrienti e adattive. La dottoressa Gianaria descrive un’esperienza di cura nella scuola, ci parla quindi di gruppi in età evolutiva, descrivendo un progetto attuato in età evolu- tiva: adottare un’ottica di multidisciplinarietà, coinvolgere diversi operatori e soggetti, implementare ed integrare la pratica gruppoanalitica con altre me- todologie per poter offrire una proposta di cura efficace e aderente ai bisogni espressi. Bisogni speciali, quali rappresentati dalla categoria BES, per cui è ancora più importante la nostra attenzione sul contesto transgenerazionale, non limi- tando l’intervento ai soli bambini, coinvolgendo tutti coloro che fanno parte della loro matrice familiare, attraverso un intervento attraverso il gruppo di genitori, e sociale, con l’attivazione e l’opera di connessione tra educatori e insegnanti. La presentazione sul Large Group, a cui è seguita anche l’applicazione e la sperimentazione durante il seminario del dispositivo attraverso sessioni espe- rienziali, è stata condotta dalla dottoressa Corti e dalla dottoressa Mulasso. La ricchezza dei loro interventi parte dalla cura della storicizzazione: recu- perando le origini, le matrici del pensiero gruppoanalitico fino a descrivere gli aspetti peculiari della metodologia del LG e dell’utilizzo del sogno. Se il contesto socio-culturale diventa oggetto di analisi e il gruppo ampio come Quaderni di Gruppoanalisi 10 luogo di elaborazione allora anche nel gruppo allargato è possibile agire sul- la frammentazione, andando “verso una nascita ed una successiva crescita del pensiero e del dialogo”. La conduzione gruppoanalitica del Large Group, attraverso la gestione creativa, contenitiva, ma soprattutto democratica della parola, diviene così la forza facilitatrice per la nascita e per la sopravvivenza di quel pensiero che è allo stesso tempo individuale e gruppale.
La terza ed ultima parte di questo numero dei Quaderni contiene i contributi del seminario Workshop sul Social Dreaming, in continuità con il pensiero di A.P.R.A.G.I che festeggia in quell’anno i 35 anni di attività culturali. Un pensiero che cresce, si rinnova, rinforza, e, attraverso lo strumento del sogno, si amplifica in un momento sia di formazione e di accoglienza verso l’esterno (la prima parte dell’evento è stata aperta a colleghi di altre consociate Coirag), che di attenzione verso i propri soci, con il Social Dreaming Matrix della sessione pomeridiana, lasciando intravedere l’impronta associativa degli ultimi anni, ovvero quella di un’apertura e integrazione di diverse tecniche come l’EMDR, la Mindfullness, il Social Dreaming. Il professor Armstrong nella sua relazione ci porta il tema dell’autorità del sogno, che ci parla in modo rappresentativo del contesto sociale. Nella ric- chezza del suo intervento, vogliamo in questa nota di apertura riprendere un concetto che Armstrong ha riportato, che ci ricollega agli studi antropologici sopra citati illustrando il lavoro del dott. Remotti. Ovvero, Armstrong cita lo studioso americano Jonathan Lear, che nel 2006, raccontava la storia della tribù nativa americana dei Crow Indians (la Crow Nation): la tribù era solita interpretare in gruppo i sogni portati, e nel caso specifico portato a disamina l’interpretazione avvenuta era stata interpretare usata non solo per prevedere un evento futuro ma “per lottare contro l’intelligibilità degli eventi che si trovavano all’orizzonte della loro capacità di comprensione”. Franca Fubini contribuisce a descrivere le diverse funzioni del sogno, por- tando il focus nell’ambito della supervisione all’interno di un Dipartimento di Salute Mentale. Preziosa e generosa la sua capacità di portarci nel lavoro di conoscenza di queste équipe che attraversano, scontri, conflitti e dialoghi. I sogni, i disegni, le installazioni creative, fungono così da veicolo e possono essere, attraverso l’interpretazione e il lavoro riflessivo, agenti trasformatori di Quaderni di Gruppoanalisi 11 elementi grezzi in elementi di pensiero, fruibili per aiutare il gruppo a pensare fino a trovare nuovi modi per collaborare, più vitali e meno sabotatori. Il sogno allora può essere visto anche come “un atto di cittadinanza, come finestra sulla cittadinanza inconscia”, dove è necessario e imprescindibile l’attenzione al contesto.
Alessandra Simonetto
Psicologa, psicoterapeuta, Socia A.P.R.A.G.I, Socia fondatrice Cooperativa Arcipelago-Centro di Gruppoanalisi applicata
Intenso e commovente rimettere mano ad una relazione scritta da Manuela Tartari per il Seminario “Straniero al mio corpo” organizzato dall’A.P.R.A.G.I. nel 2018. Ed impossibile scindere i miei commenti dalla morte di una persona che è stata pensiero, cultura, curiosità, generosità e il cui corpo non ha resisti-to alla fragilità e all’attacco di una patologia virale che colpisce e continua a colpire tante persone.
Impossibile quindi scindere i miei commenti da quello che ci circonda da molti mesi e che ci richiama a come l’altezza dei pensieri debba essere incardi-nata e imperniata sulla primitiva, terrena fondamentale corporeità di ognuno di noi.
Abbiamo presuntuosamente e difensivamente immaginato di poterci svin-colare dalla nostra appartenenza alla natura e alle regole della natura andando in una dimensione virtuale (finanziaria, economica, filosofica, psicoanaliti-ca…) che ci ha consentito di volare attraverso la creatività, ma forse anche di negare la profonda e primitiva radice che accompagna e vincola tutti noi alla corporeità e alla appartenenza fisica al mondo. Astraendo il mentalizzare dal-la costante necessità di integrare e non dissociare ciò che mentalizziamo dal mentalizzare stesso.
Ecco questo testo di Tartari ci riporta a quell’appartenenza profonda ricor-dandoci che l’appartenenza è vicinanza di corpi, è storia, che la cultura è sto-ria, storia di relazioni, di scoperte, di evoluzioni che passa esplicitamente o silenziosamente attraverso le generazioni e che se “il sistema di riferimento culturale viene meno” si perde la possibilità di “dare senso ai fatti intimi della vita”. E in questo silenzio anche il corpo perde ulteriormente risorse, il sistema ormonale, immunitario, neurovegetativo vacilla.
Nella recente esperienza di sostegno psicologico in questa fase di emergen-ze, sono stata stupita dal fatto che le persone più anziane fossero talvolta meno disorientate dei più giovani, nonostante il rischio maggiore, l’evidente fragilità fisica, l’ignoranza tecnologica. Mi sono spesso chiesta se questo minor diso-rientamento dipendesse proprio dall’avere ancora vivaci dentro di sé i retaggi di un mondo contadino, nel quale la fatalità, la mortalità, l’impotenza avevano uno spazio reale e percepito. Mentre l’illusione di aver sgominato le incertezze, con eccessive presunzioni di sicurezza, potesse aver tolto la capacità di rico-noscere e dare senso a quella parte della vita che invece è fatta di terra, odori, corpi. È fatta di natura, di vita e di morte che si susseguono dandoci dolore e perdita, ma anche costante capacità di rinnovarci e di inventare attraverso quell’energia creativa che è insita nell’uomo e nella donna.
Tartari scrive, in un passaggio, che “il lutto migratorio è vissuto direttamen-te dai genitori e trasmesso ai figli tramite le emozioni, i gesti e il linguaggio, racconti troncati, toni di voce, ma molto spesso tramite silenzi”. Nella conge-lata impossibilità di dare vita e quindi narrazione a quanto attraversato, alle emozioni che accompagnano distacchi e scelte durissime. Al dolore, alla no-stalgia, ai sorrisi della memoria che si accompagnano alle lacrime di commo-zione per ciò che abbiamo avuto e non abbiamo più. Ma che ci ha dato solidità, struttura, resilienza.
Ed ecco allora l’invito, nel testo di Tartari, ad esplorare sempre il danno pro-vocato dalla perdita di senso e dalla perdita di capacità di dare senso. Senza la presunzione di riportare solo al nostro storico e culturale quanto osserviamo. Esercizio molto difficile perché noi stessi siamo incardinati su ciò che ci orien-ta nel dare senso a quello che osserviamo. Esercizio fondamentale e che richie-de l’umiltà e la curiosità del comprendere ma anche la forza ed il coraggio di definire i requisiti fondamentali per il rispetto e la dignità della vita. E questo come lo sapeva bene Tartari, nelle sue valutazioni peritali, quando doveva con-frontarsi con indicazioni e decisioni a tutela della vita di bambini e famiglie!
Quella della clinica forense è forse l’area più difficile nella quale, con alcu-ni colleghi particolarmente illuminati, Manuela ha cercato degli orientamenti che tenessero conto della complessità giuridica che è frutto della cultura di un paese e direi di una specifica area geografica che ha elaborato i propri codici di riferimento, passando dall’illuminismo, dal positivismo, dalle battaglie per i diritti delle donne arrivando a posizioni ben salde. Ma questa complessità come si può coniugare con la clinica e la clinica forense in particolare, che ri
conosce alle dinamiche soggettive e specifiche elementi caratterizzanti quella struttura di personalità, quella dinamica relazionale, quella concezione di ge-nitorialità? Dimensione non facile che vede un dibattito costantemente aperto da quella parte del mondo della psicologia che rifugge dalle facili ideologie, dalle posizioni apodittiche per mantenere l’umiltà e la curiosità della ricerca. Sapendo prendere posizioni certamente, ma sempre avendo in mente che “La verità è inesauribile, uno dei cardini fondamentali dell’ermeneutica è la com-patibilità, anzi la coessenzialità del possesso e del processo, della conquista e della ricerca, della padronanza e dell’approfondimento” (Pareyson, Estetica, 1971).
Il mio ultimo incontro con Manuela è stato proprio legato alla costruzione di argomenti di contestazione ad un incompleto protocollo tra parti cliniche e giuridiche che pensavamo e pensiamo che non avrebbe protetto né le persone né i professionisti. E così la ricordo, indignata, lucida, competente.
In questi ultimi anni, così intensi e dinamici per la professione psicologi-ca e psicoterapeutica, siamo stati costantemente stimolati, sul piano teorico e tecnico, dalle correlazioni e dai riverberi tra il relazionale ed il corporeo, tra il sociale e l’individuale. In questo dobbiamo diventare sempre più capaci di scegliere l’approccio più utile ed efficace a seconda dei pazienti che abbiamo, delle loro risorse e del contesto in cui viviamo. Sapendo che in questa fase storica coesistono, nello stesso territorio, comunità diverse, unite dalla geogra-fia e dalla necessità ma non necessariamente dalla condivisione di visioni del mondo e delle relazioni.
Gli stimoli lasciati in questa direzione da Tartari sono importanti, ci inse-gnano.
Manuela ci manchi e ci mancherai, ma proprio per questo terremo vivo il tuo pensiero lasciandolo fluire dentro di noi, mentre la lacrima del rimpianto e del dolore ci accompagna.
Marta Gianaria
Psicologa, psicoterapeuta, Socia APRAGI, socia Arcipelago, docente Dinamiche dei gruppi presso Università degli Studi di Torino
Buongiorno a tutti, grazie per essere qui e un grazie aggiuntivo ai relatori a cui presto lascerò la parola. Solo una piccola introduzione rispetto ai temi del seminario che come vedete dalla locandina ha un titolo abbastanza criptico: “Straniero al mio corpo, salute, malattia e cura. Culture in dialogo”.
Ho pensato che sarebbe utile partire da alcuni pensieri condivisi con i col-leghi con cui ho preparato il seminario che sono all’origine di questo titolo.
Innanzitutto lo straniero è una questione attuale che ci tocca ogni giorno at-traverso le notizie che ci giungono dai media, ma è anche una presenza che popola la nostra società ormai eterogenea: le classi elementari sono ormai mul-tietniche, negli ambulatori e nei servizi i pazienti hanno sempre più spesso provenienze diverse, la gran cassa mediatica ci propone insistentemente questo tema spingendosi raramente oltre la dimensione della cronaca. Questi e molti altri i motivi per cui ci è sembrato importante occuparcene.
Il confronto con l’altro da noi riguarda in effetti anche dimensioni intrap-sichiche e molto personali: mi riferisco a quando incontriamo parti straniere dentro di noi e ci imbattiamo per così dire nell’oriente della nostra mente. Ad esempio, i pazienti di fronte a un sintomo o a un disturbo spesso hanno la sen-sazione che il loro stesso corpo sia diventato un estraneo, come se una frat-tura avesse portato via il conosciuto e avesse messo al suo posto qualcosa di diverso, sconosciuto, straniero, con cui non sappiamo ancora come rapportarci.
La diversità da sempre mette in crisi le nostre certezze e spesso ci disturba perché interrompe la continuità del già noto e ben lo sappiamo noi terapeuti a partire dalle diatribe di freudiana memoria, alcune ancora attuali, tra modelli psicoterapeutici più o meno attigui: l’incontro con l’altro, tanto più se sollecita le nostre categorie di in group e out group non è cosa scontata.
Prendo in prestito, spero correttamente, il pensiero del Prof. Remotti [F. Contro natura. 2010, Ed. Laterza; Remotti F. Contro l’identità. 2001, Ed. Laterza] nel dire che generalmente quello che è estraneo, diverso, non comprensibile viene percepito come pericoloso, temuto, barbaro. Così le madri in alcune culture del mondo leggono le sindromi autistiche dei loro bambini, così noi ci troviamo di fronte a forme di allo-genitorialità, così i migranti sono di fronte al nostro sistema famigliare o sociale, così noi ci troviamo di fronte a parti sconosciute e inattese di noi stessi.
I plateau culturali sono potenti e impliciti. Compongono l’identità personale a partire da matrici socio -culturali, orientando le dinamiche inter-gruppi, tra in group e out group. Molto di tutto questo nasce e si consolida nell’attacca-mento: modelli di relazioni, d’identità, rappresentazioni adulti/bambini, stili di accudimento, di genitorialità. Su questi a-priori, invisibili e generalizzati si declinano poi le varianti delle storie personali (stili di attaccamento, schemi personali, percezioni, rappresentazioni, modelli operativi interni).
Il contrario dell’integrazione è disintegrazione, quindi occorre attrezzarsi; ma integrarsi con diversità di ampia portata comporta su entrambi i fronti rivedere continuamente gli automatismi per sottoporli ad attenzione consape-vole. Interrogare questi impliciti è utile, oltre che per avere consapevolezza dei nostri a-priori, anche per valutare quali altre opportunità esistano nel campo delle possibilità.
Non mi addentro oltre in questi pensieri perché i relatori ci guideranno su questi e altri funzionamenti molto meglio di me.
Rispetto ad A.P.R.A.G.I esplicito solo che lo sguardo che useremo per oc-cuparci di queste questioni è quello psicodinamico, relazionale, che parte dalla soggettività della persona per guardare ai significati e alle rappresentazioni (famigliari, sociali, culturali) che sono l’abito implicito dell’unità psiche corpo di ognuno di noi.
Solo un’ultima considerazione di cornice, prima di lasciare la parola, che riguarda la questione del contesto e i concetti di salute e malattia: la malattia è sintomo di una frattura tra l’uomo e la società e lo sappiamo fin dalle isteri-che di Freud.
Oggi si tratta d’interrogarci sulle sindromi depressive o ansiose in cui la dimensione allargata e quella politica è partecipe con i suoi limiti nel propor-re soluzioni a volte così semplicistiche da essere disarmanti. Così, se da una
parte imbarchiamo alterità su molti fronti, dall’altra sembra che la cosiddetta globalizzazione proponga in riposta una standardizzazione della singolarità, della specificità umana forse anche del pensiero (penso al modello logaritmico di uomo, alla medicina big data, al proliferare dei protocolli a dispetto delle differenze individuali).
Penso che l’omogeneizzazione delle differenze sia un modello che deforma e devitalizza il reale, offrendo terreno fertile alle regressioni e all’attivazione di fondamentalismi di vari colori e provenienze: così cresce la radicalizzazio-ne là dove quel che viene a mancare è una quota ragionevole di radicamento.
Allora il tentativo di costruire strumenti utili per i nostri pazienti ha a che fare con la comprensione di come funziona la mente relazionale in connes-sione con il suo contesto, nel favorire condizioni di salute o malattia.
Tenteremo di farlo oggi come sempre attraverso punti d’osservazione mul-tipli (le culture in dialogo) grazie ai nostri relatori che ci portano oggi espe-rienze ricche e diverse come i contesti in cui lavorano: abbiamo il Professor Remotti, già Direttore del Dipartimento di Antropologia Culturale dell’Uni-versità degli Studi di Torino, Docente di Antropologia e autore di numerosi libri, da sempre studioso e pensatore rispetto alle culture altre e ai modi di accostarle; la Dott.ssa Tartari, Psicoterapeuta di matrice junghiana, antropo-loga che molto ha lavorato e studiato le dimensioni famigliari e le relazioni di accudimento, compresa la questione corporea nelle culture del mondo.
Manuela Tartari
Psicologa, psicoterapeuta, Antropologa, Consulente forense
Premessa
C’è una linea di confine tra i processi inconsci e la loro manifestazione nelle relazioni, come ad esempio in quella tra madre e bambino piccolo. Le dina-miche profonde investono la vita emotiva e lo scambio affettivo, parimenti de-terminano l’andamento del pensiero e la gestione dell’angoscia. In ciascuno di questi piani esse si incontrano in modo più o meno conflittuale con i processi difensivi, quali la razionalizzazione, la sublimazione, l’intellettualizzazione, la negazione, ecc. A loro volta, i processi difensivi si servono del materiale vitale, esperienziale, per darsi una forma riconoscibile e accettabile anche dalla co-scienza. Il confine tra fatti della vita e organizzazione delle difese è piuttosto labile, transitabile nei due sensi, dell’inconscio e del conscio. Lo osserviamo nello studio della coppia madre-bambino, soprattutto se ci soffermiamo sulla madre, sul suo modo speciale di interpretare l’agire del figlio, il suo stare bene o male, calmo o agitato, affamato o inappetente, ecc. Questo particolare aspet-to della relazione madre-figlio e anche della dinamica difese-esperienze è il più sensibile alla codificazione dei conflitti in termini culturalmente orientati.
Ad esempio, in Africa nera si parla di una sindrome Nit-Ku-Bon, in base alla quale un bambino che ne è affetto non mangia, non comunica, non ha emozioni, è calmo e indifferente anche alla propria morte che – si dice – egli conosce e prevede e anche anticipa o ritarda [Cfr. R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria, Milano, Franco Angeli, 2004]. Quello percepibile come una forma di autismo viene descritto come un disturbo da “estraneità”: il bambino decide quando andarsene, se portare con sé altre persone facendole morire, se danneggiare i raccolti, quindi è sentito o meglio, raccontato dalle madri, come un figlio non loro, un bambino straniero. Una donna il cui rapporto con il figlio sia tale da amplificare elementi patologici magari già presenti, avrà un vantag-gio difensivo a usare un dato culturale che descrive quel bimbo come una spe
cie di alieno, pericoloso e in qualche misura libero di andare via quando vuole. È interessante l’uso fatto dalla madre di un apparato culturale per strutturare le proprie difese nella relazione con un bambino il quale spesso muore davvero.
Ora, potremmo chiederci cosa capita quando, causa l’immigrazione, il siste-ma di riferimento culturale viene meno in tutto il suo potere di dare senso ai fatti intimi della vita. È un sistema molto friabile e se crolla da una parte crolla ovunque. La donna perde un qualcosa a cui fino a poco prima si aggrappava e trova un qualcosa d’altro: il pediatra, l’ospedale, il biberon ma per lei ha un altro significato rispetto a noi che da sempre abbiamo inserito ognuno di quegli elementi in una rete simbolica e affettiva.
Come si ristrutturano i sistemi difensivi delle madri operanti nella relazione con il figlio quando il loro mondo cambia? Mutano anch’essi o sono talmen-te adattabili da non consentirne la rilevazione? Non mutano affatto? Come cambia la gestione emotiva di un bambino in un contesto in cui la comunità che tradizionalmente accompagna la crescita di un figlio è totalmente assente? Resta una comunità di riferimento anche solo mentale? Resta solo il vuoto? Come è quel bambino che per la prima volta la donna alleva in una discreta solitudine?
Le famiglie migranti
Il mio intervento si muove nell’ambito di una riflessione circa il percorso com-piuto dalle famiglie migranti attraverso le istituzioni socio sanitarie italiane. È centrale la dimensione della relazione tra genitori e figli e quindi il nostro modo di pensare alle genitorialità; parimenti mi sembra importante ripensare i nostri atti di cura che prendono in carico il dolore e il disagio nei legami familiari.
La migrazione comporta una separazione dalla cultura di origine, si genera una differenza tra il quadro culturale esterno e il quadro culturale interno alle persone, ciò che è stato interiorizzato ed è divenuto parte del senso di identità.
Le famiglie migranti, secondo M.R. Moro [T. Baubet – M. R. Moro, Psicopatologia transculturale. Dall’infanzia all’età adulta, Ed. Koiné Centro Psicologia, 2010], devono avviare un lavoro del lutto per quanto hanno lasciato dietro di loro: famiglia, amici, lavoro, una posi-zione sociale, gli antenati, un gruppo religioso, una comunità che condivideva regole di alimentazione, allevamento dei figli, ruolo di maschio e femmina,
marito e moglie, ecc. Il lutto migratorio è vissuto direttamente dai genitori e trasmesso ai figli tramite le emozioni, i gesti e il linguaggio, racconti troncati, toni di voce, ma molto spesso tramite silenzi.
I genitori migranti sono sottoposti a esigenze contraddittorie, come far pro-pri i valori della società dove ora vivono e nello stesso tempo, riuscire a tra-smettere i valori tradizionali. Ad esempio, molte madri africane non praticano più i massaggi ai neonati e alcune di quelle che lo fanno ancora ne hanno tralasciato il carattere rituale, condiviso e li effettuano in uno spazio intimo, mentre la tradizione li vorrebbe momento di scambi con la propria madre, la suocera o una anziana di casa. Molte madri tengono il figlio sulla schiena ma solo in casa e quando escono, usano i metodi occidentali: passeggino, carroz-zina, perché mostrare il proprio modo di tenere i figli fa correre il rischio di attirare gli sguardi degli estranei.
Nelle culture africane, la maggior percentuale di stimolazioni proposte al bambino piccolo è offerta da sollecitazioni corporee, mentre l’esplorazione di oggetti è poco utilizzata. Il contatto fisico con la madre, tramite l’uso del telo per portare i bambini e il massaggio quotidiano, diviene quindi un modo glo-bale di fornire stimoli, in assenza del quale non sempre si passa alla stimola-zione tramite oggetti privi di significato per molte donne africane, e dunque si genera una ipostimolazione dei bambini. Oppure, si nota un aumento dell’uso del biberon, usato sovente come complemento al latte materno. Il modo afri-cano di allattare i bambini prevede l’offerta del seno a domanda del bambino e di fronte a ogni manifestazione di disagio. Si fanno quindi poppate più brevi e più frequenti e il biberon viene inserito per proteggere la madre dalle inquie-tudini in merito alla propria capacità materna, ora che è priva del sostegno del gruppo di donne.
La migrazione rende vulnerabili le madri e condiziona la relazione con i figli. La fragilità riguarda l’intero processo di sviluppo e si manifesta concre-tamente sul piano psicologico, con sensibilità o debolezze reali o latenti, attuali o differite. Secondo M. R. Moro, la migrazione comporta la necessità di adat-tarsi a molti cambiamenti: L’ambiente: il clima, il modo di vestire, le relazioni con i vicini, l’alimentazione.
Il linguaggio e gli stili di comunicazione: sono i giovani ad insegnare ai genitori la lingua del paese dove ora vivono, ma non sanno insegnare la co-municazione non verbale (sguardi, distanza degli interlocutori, ecc.), anch’essa diversa, cosa che produce un certo isolamento sociale, perché i migranti non
sanno capire la comunicazione delle persone del paese.
La perdita della rete sociale. La modificazione dei ruoli sociali. La modi-ficazione dei ruoli famigliari (uomo/donna, genitori/figli, ecc.).La pratica reli-giosa. Le leggi in vigore, ad esempio quelle sulla poligamia, o sui maltratta-menti ai bambini.
I figli dei migranti
Poi il bambino cresce e il contenitore materno si deve aprire al mondo esterno, quello stesso che i genitori non conoscono e quindi non possono addomesti-care per i loro figli. I bambini si separano dall’ambiente familiare senza prote-zioni adeguate ad affrontare il mondo di fuori, soprattutto i figli di persone in difficoltà sociale e per questo escluse dai sistemi di condivisione collettiva del significato di certe esperienze, come la scuola, il rapporto con i compagni, le differenti modalità di alimentarsi… Questi bambini vanno nel mondo esterno senza che i genitori abbiano potuto renderlo comprensibile. Trovare il loro po-sto in quel mondo e al tempo stesso salvaguardare ciò che hanno sperimentato dentro la famiglia, sono compiti che i bambini non possono condividere con i genitori.
Nell’imparare a leggere e scrivere in una lingua diversa da quella materna, i bambini si avvicinano al mondo italiano e molti sentono di dover quasi sce-gliere tra i due mondi, e non possono farlo senza perdere uno dei due. B. Gibello [In: Moro, MR. Bambini di qui venuti da altrove. Saggio di transcultura. Milano, Franco Angeli, 2005.] parla di “contenitori culturali” e suggerisce che nel cambiare ambiente, i contenitori culturali cambiano e i bambini, anche se nel tempo giungono a cogliere quelli dei loro genitori, non li interiorizzano. Il bambino deve riuscire da solo a percepire tutti gli aspetti impliciti che orientano l’essere nel mondo dei genitori, perché non condivide lo stesso ambiente culturale della famiglia di origine. Egli spesso diviene più competente del mondo esterno che del mon-do della sua famiglia e diventa l’interprete della cultura italiana per i suoi genitori. Egli vive sulla linea di confine tra il dentro familiare e il fuori straniero ed è costretto a una scissione tra il mondo degli affetti e quel che trova fuori. È quasi costretto a perdere, negare, qualche aspetto di sé, molto spesso la sua filiazione, ovvero il suo posto nella catena delle generazioni familiari.
I genitori stessi non lo riconoscono facilmente, perché questo figlio appare
loro un poco estraneo: fa, dice e pensa cose per loro incomprensibili e faticano a percepirlo come “uno del loro mondo”. Si crea una nuova fragilità nel legame tra genitori e figli che, più avanti negli anni, sfocia spesso in conflitti aspri, come quelli letti sui giornali, della ragazzina che rifiuta il velo, o il matrimonio combinato, o il ragazzino scappato di casa per non prendere le botte dal padre.
Ancora la Moro (2005) esamina questa fragilità: i figli dei migranti sono esposti al rischio transculturale (il passaggio da un universo ad un altro), ma se riescono a padroneggiarlo, acquistano delle capacità speciali, perché creano una condizione oggi definita di “meticciato”, e possono fondere in modo crea-tivo i due mondi dove abitano.
La riuscita del meticciato è la chiave per vivere in equilibrio e per fare della propria vulnerabilità transculturale una risorsa di creatività infantile; ma que-sto implica, innanzi tutto, l’accettazione della alterità e quindi il poter ricono-scere la propria storia familiare e collettiva.
Il clinico e le famiglie migranti
Cosa succede quando noi clinici incontriamo una famiglia migrante, nel Ser-vizi socio sanitari, nella scuola, in Tribunale?
Il nostro primo atto di cura si muove nell’ambito della conoscenza-valuta-zione e si appoggia sovente su un parametro teorico contenente elementi tratti dalla clinica psicodinamica e dalla psicologia evolutiva, con una particolare attenzione agli studi sull’attaccamento. Questa commistione di modelli e me-todi genera a mio parere una certa confusione in cui le difficoltà dell’indagine si confondono con le risposte controtransferali degli operatori, in particolare quando sono confrontati con famiglie portatrici di un’estraneità culturale.
Gli stili di relazione con i figli sono molteplici e alcuni ci propongono del-le difficoltà. L’impatto con certe situazioni può essere molto inquietante: un padre usa la cinghia, una mamma si chiude in casa con la neonata, i genitori affidano il bambino a un conoscente; fenomeni di adultizzazione, scarse atten-zioni all’igiene, all’inserimento scolastico, alle cure sanitarie, a fronte di mino-ri spesso tristi, disorientati, incerti; sono elementi in grado di suscitare risposte istituzionali tanto severe quanto poco meditate. La prima difficoltà consiste sempre nell’essere sospinti a isolare un tratto comportamentale (botte, assenza di cure sanitarie…) e renderlo il filtro attraverso il quale valutiamo l’interazio-ne tra il genitore e quel bambino: tratti portatori di un’estraneità minacciosa tale da attivare la nostra spinta a difendere il minore dalla sua famiglia e perciò
stesso tale da farci perdere di vista il contesto, le sue dinamiche, i punti di crisi ma anche quelli di forza.
Altri modelli coesistono insieme al nostro, ad esempio, alcuni assegnano la funzione genitoriale a un gruppo allargato che a volte sostituisce quali intera-mente padre e madre lasciando in noi l’impressione di un abbandono inesisten-te nella realtà, o meglio, non avvertito dai genitori perché hanno in mente che altri si stiano occupando dei figli.
Molte famiglie non europee operano varie distinzioni tra i figli: tra maschi e femmine, tra grandi e piccoli, e assegnano loro compiti, ruoli, rifornimenti affettivi e gradi di protezione che ci possono apparire ingiusti, pericolosi, dan-nosi, o anche segno di importanti trascuratezze.
Ancora più profondamente, possono mutare i progetti educativi e non essere volti all’autonomia o al benessere dei singoli figli, bensì orientarsi alla conser-vazione delle tradizioni, al rispetto delle regole, all’assunzione di responsabili-tà, e sembrarci assai poveri di amore, cura e premure.
Il nostro modello di genitorialità
Esso è orientato a una interpretazione del legame e delle interazioni con il bambino dal punto di vista dei suoi bisogni psichici e fisici.
La genitorialità tuttavia è un costrutto storicamente sensibile. Le cose sono cambiate con l’arrivo di leggi che hanno progressivamente inserito lo Stato nella vita privata delle famiglie.
Nel 1959 è stata votata la Dichiarazione dei diritti del fanciullo da par-te dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il documento introduce il concetto della titolarità dei diritti per il bambino, fino a quel momento non considerato persona giuridica. Si fa strada il concetto di un bambino sogget-to centrale dei provvedimenti che lo riguardano, i cui interessi saranno da anteporre a quelli degli adulti. Le conseguenze di tali riflessioni diventano il tema centrale della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991. L’art. 4 della Convenzione impegna gli Stati firmatari ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi ed altri, necessari ad attuare i diritti riconosciuti ai bambini e ai ragazzi. Tali di-ritti riguardano il loro benessere, la loro autonomia, il diritto all’educazione, il diritto al riposo e alla attività ricreativa, il diritto alla partecipazione culturale ed artistica, la libertà di associarsi, riunirsi, esprimersi, ricercare, ricevere, e divulgare informazioni, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la
libertà di essere ascoltato e di esprimere la propria opinione su ogni questione che lo interessa. Le relazioni familiari del bambino sono riconosciute come ottimali laddove sono costruite su cure adeguate.
Osserviamo quanto lentamente anche in Occidente si è fatta strada l’idea di un minore portatore di diritti, soggetto a tutti gli effetti, dotato di una persona-lità e una sua autonomia anche nei confronti dei genitori, portatore di bisogni ed esigenze sue proprie, da rispettare e proteggere. É stato un lungo cammino, prima si è cominciato a curare i bambini, pensare che avessero bisogni, malat-tie, momenti di crescita loro propri e quindi ci si è preoccupati di farli crescere sani, istruiti, ma la constatazione che avessero emozioni e sentimenti di cui occuparsi è giunta molto recentemente e chi ha oggi una certa età può ricor-dare come lungo l’infanzia gli adulti con cui entrava in contatto non badassero molto ai suoi stati d’animo. L’ empatia è una scoperta recente eppure ha un grande peso nel rapporto instaurato, anche come professionisti, con i bambini.
In Italia, solo nel 1996, è stata approvata la nuova legge sulla violenza ses-suale, la quale non è più reato contro la morale ma contro la persona.
Prima dell’attuale codice penale c’era, e in parte c’è ancora, il Codice Roc-co, elaborato e promulgato in pieno regime fascista. La sezione più difficile da modificare è stata quella dei diritti individuali. Un particolare interesse veniva destinato al mantenimento del sistema familiare tradizionale. Per il Codice Penale i reati di violenza sessuale e incesto erano parte “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” e “Dei delitti contro la morale familiare”. Così considerando la violenza sessuale e incesto un’offesa non contro la perso-na ma contro la moralità pubblica, si dimostrava che il bene da proteggere e tu-telare non fosse tanto il soggetto danneggiato quanto il buon costume sociale.
La lentezza con cui nei sistemi giuridici occidentali si è fatta strada una nuova immagine di bambino ha paradossalmente favorito la perdita di memoria del cambiamento in atto e oggi a tutti noi sembrano ovvie e naturali leggi e con-suetudini sorte meno di 50 anni fa. Ma le famiglie provenienti da altri mondi culturali non hanno introiettato questo cambiamento e comprendono a fatica quanto noi ci aspettiamo da loro.
Ogni atto professionale – la raccolta anamnestica, l’ascolto, la diagnosi, la prognosi, la valutazione peritale, ecc. – comporta l’uso di categorie interpretati-ve derivanti dal nostro modo di considerare un bambino e sono queste a dover essere sottoposte a una attenta analisi nel caso di un incontro tra culture. Un
costante domandarsi se quel che appare estraneo o sbagliato nelle relazioni tra genitori e figli migranti, non metta in luce un implicito riferimento alla nostra visione di come debbano essere strutturati quei legami. Il problema, a mio avviso, non dipende dall’avere noi operatori le nostre idee e concezioni, bensì lasciarle agire in modo implicito, senza accorgerci del loro ruolo nell’incontro con persone portatrici di diversità. Una logica estranea ci parrà più decifrabile se impariamo a riconoscere il controtransfert culturale scaturito dalla
erronea attribuzione di universalità a costrutti – come ad esempio parità tra i sessi, egualitarismo, reciprocità – frutto del nostro sviluppo storico e cultura-le. Il controtransfert culturale è costituito dalle emozioni sperimentate nel con-testo clinico e sollecitate dall’incontro/scontro con dimensioni culturali “altre”.
Come psicoterapeuti, riconosciamo il controtransfert quale strumento prin-cipe della pratica clinica: le emozioni dei nostri pazienti suscitano in noi emo-zioni guida, la cui lettura indica possibili vie di comprensione. In un contesto culturale non abituale, siamo costantemente sollecitati, incuriositi, spesso in-fastiditi da situazioni ai nostri occhi incongruenti, stravaganti, prive di significato o addirittura dannose.
Quando riusciamo a sostenere lo sconcerto, il disagio, la spinta al giudizio, possiamo avvicinarci a chi ci sta di fronte.
Francesco Remotti
Antropologo, già direttore del Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’Università di Torino e presidente del Centro di Studi Africani (CSA), Coordinatore nazionale di progetti di ricerca in campo antropologico ed etnografico, è stato professore ordinario di antropologia culturale, ha insegnato anche etnologia dell’A- frica ed è stato presidente del corso di laurea in Comunicazione.
Buongiorno e grazie di questo invito.
Sono rimasto colpito dal titolo che avete voluto dare a questo seminario “Straniero al mio corpo”: in questo titolo ci sono delle evocazioni ed una è già emersa nella presentazione della dott.ssa Gianaria, attraverso il concetto di “straniero al mio corpo” che è qualcosa che riguarda tutti in determinate circostanze.
Per quanto mi riguarda l’espressione “straniero al mio corpo” mi ha fatto venire in mente una distinzione – della cui pertinenza non sono certo e farò riferimento anche alla dott.ssa Tartari per chiedere eventualmente il suo aiuto qualora cogliesse consonanze – che, a partire dal filosofo tedesco Helmuth Plessner, ha avuto e ha tuttora successo – specialmente nell’antropologia filo-sofica tedesca –, cioè la distinzione tra “essere corpo” e “avere corpo”. Credo che sia una distinzione valida, in quanto allude a due situazioni piuttosto diver-se, che entrambe ci riguardano da vicino, e che io interpreterei in questo modo.
“Essere corpo” significa che, qualunque cosa noi facciamo – anche la più sublime da un punto di vista intellettuale, artistico, scientifico –, la facciamo sempre “essendo” un corpo. Il corpo ci accompagna in qualsiasi attività noi svolgiamo, anche se si trattasse di attività di tipo mistico. Il corpo c’è sempre. Questa è una condizione tipica della dimensione animale e noi siamo animali.
“Avere corpo”, invece, ci conduce ad una dimensione che sembra essere più tipicamente umana, una dimensione che – beninteso – non annulla la prima, ma vi si aggiunge. Nel momento in cui affermiamo “io ho un corpo”, ci riferia-mo al possedere un qualcosa e quindi a una relazione in cui c’è una qualche di-stanza rispetto all’oggetto. Al contrario, nel concetto di “essere corpo” non c’è
distanza, “io sono il mio corpo” significa che” io coincido con il mio corpo”. In questa riflessione emerge immediatamente il concetto di coscienza – in qualsiasi accezione la si intenda– perché la coscienza crea una certa qual di-stanza rispetto al corpo. “Essere cosciente di” ci conduce a pensare all’osser-vazione, allo sguardo: nella nostra quotidianità è rappresentato dal guardarsi allo specchio, dall’osservazione dell’immagine del corpo che vi è riflessa, dal
focalizzare i suoi dettagli, dal fissare alcune sue caratteristiche.
Pensiamo anche ad un altro ambito di applicazione di questo concetto, ov-vero a tutti gli interventi sul corpo che noi facciamo o per motivi puramente estetici o per motivi strumentali. Colpisce il fatto che fondamentalmente non esiste società – e io aggiungerei non esiste essere umano – che non intervenga sul proprio corpo, per motivi estetici, qualunque sia il modello estetico o i mo-delli estetici applicati in quella determinata società. Per la cultura occidentale potranno non essere graditi i piattelli labiali piantati nel labbro inferiore dalle donne della zona del lago Ciad, ma rappresentano un modello estetico valido in quella specifica cultura.
Consideriamo tutti gli interventi estetici che noi facciamo nel corso della giornata, senza badarci più che tanto: essi fanno parte ormai di un comporta-mento quasi naturalizzato, ovvio, atteso, come per un certo numero di maschi adulti il farsi la barba la mattina. Si tratta di comportamenti per noi “naturali”. E tuttavia debbono essere considerati come interventi sul corpo.
Tutti gli interventi sul corpo rientrano nel concetto “avere un corpo” su cui stiamo riflettendo.
A tal proposito mi viene in mente – oltre a Helmuth Plessner – anche l’etno-logo francese Marcel Mauss, col suo saggio degli anni ’30 sulle “tecniche del corpo”: lavoro pionieristico, in quanto apre un campo di indagine veramente notevole che è quello – come lui le chiamava – delle “ tecniche del corpo”. Mauss partiva dal presupposto secondo cui “il corpo è il primo e più naturale strumento di cui gli esseri umani possono disporre”. In questa tesi voi vedeteapplicata, sia pure implicitamente, la nozione di “avere un corpo”. “Trattare il corpo” come uno strumento, per camminare, per aggiungere una meta, etc. significa disporre di quello strumento. Noi usiamo il nostro corpo come se fosse uno strumento. Tutto ciò significa alludere a questa dimensione: avere un corpo.
Oltre ai due campi in cui si può articolare quel “avere un corpo” (un campo più di ordine strumentale in cui utilizzare il corpo per tutta una serie di attività
che compongono e sono alla base delle nostre azioni e un altro invece di natura estetica) potremmo aggiungere anche una terza dimensione: ”avere un corpo” talvolta può anche significare un qualcosa di più radicale, un “saltar fuori” dal corpo, andare al di là dei limiti del corpo stesso o metterli alla prova.
Anche questo concetto noi lo troviamo in molte società: nella nostra è chia-rissimo, basti pensare a tutti quegli sport in cui la spettacolarità è data in gran parte proprio dal superamento dei limiti. Ci si interroga su quali sono i limiti che si possono raggiungere in questa utilizzazione del corpo che certamente non ha un’utilizzazione di ordine pratico – se pensiamo ai bisogni elementari
– e non ha neanche un aspetto di tipo estetico, ma è un’altra cosa ancora: è un modo per mettere alla prova ed un tentativo di andare al di là delle capacità e dei limiti del corpo stesso. Qui accennerei appunto anche a un comportamen-to, in fondo, di trascendenza, non necessariamente trascendenza religiosa: lo intendo qui in senso molto laico, nel senso di trascendere, andare oltre, questo è il concetto che vorrei esprime. Ed è un po’ come se gli esseri umani non si trovassero mai completamente a proprio agio con il corpo, ecco io vorrei dire questo, in conclusione di questa prima parte del mio discorso.
Certi pensatori di grandissimo calibro sono anche arrivati ad affermazioni in cui emerge questa forte discrepanza. Pensate per esempio a Platone che si spingeva addirittura a dire che il corpo è la tomba dello spirito: il corpo da una parte, con i suoi limiti, e dall’altra parte l’anima, lo spirito (tutti termini che stanno ad indicare un qualcosa che trascende il corpo stesso). E certamente il corpo “fa da freno”, presenta continuamente degli ostacoli, in primis ostacoli e freni di tipo naturale, nel senso di fisiologico, e a seguire legati alle malattie: rifacendomi al sottotitolo di questo nostro incontro – “salute … malattia” – mi riferisco alle malattie di tipo organico e a quelle di tipo psichico, che rappre-sentano degli ostacoli, dei limiti.
Alludere e accennare al fatto che noi “abbiamo un corpo” e non soltanto al fatto che “siamo un corpo”, introduce un tema su cui io vorrei soffermarmi un po’ insieme a voi, che è il tema della “molteplicità”. Vale a dire stando alla dimensione “io sono un corpo” ciò che emerge è il tema dell’identità (“io sono identico a/io coincido con”), spostandoci invece sul “io ho un corpo” si inco-mincia ad introdurre una specie di cuneo, ovvero si introduce un elemento di molteplicità. “Noi non siamo soltanto un corpo” significa che c’è qualche altra cosa, comunque questa altra cosa venga chiamata, in questo frangente non interessa la proprietà lessicale (anima, psiche, spirito): c’è una molteplicità
e nella nostra tradizione – filosofica e/o anche religiosa – per lo più si cerca di rimediare a questo senso di molteplicità – che comincia ad affiorare non appena noi riflettiamo su “avere un corpo” – pensando che il corpo è uno, e possibilmente anche l’anima, anzi, l’anima ancora di più è una. Pensate quanto a lungo nel pensiero occidentale è prevalsa l’idea, appunto, dell’unicità. Anzi, l’anima molto spesso veniva tirata fuori proprio per garantirsi l’unicità, perché il corpo, di per sé, è uno però è fatto anche di tante cose…
Qui c’è un tema che è un po’ nascosto, che però è fondamentale nella nostra concezione dell’individuo, che è il tema della scomponibilità. Il corpo sarà an-che uno – fino a prova contraria – ma è fondamentalmente scomponibile, come tutte le cose che appartengono a questo mondo: tutto è fatto da materia, e può essere scomposto, sezionato, diviso, una parte si può staccare dall’altra, etc.
E allora, come dire, l’anima è stata spesso tirata fuori come, invece, ciò che garantisce l’unicità. Questo lo si può vedere assai bene nella storia delpensiero filosofico occidentale, almeno fino a un certo punto. Leibnitz, per esempio, nel ‘700 affermava che nell’uomo “l’anima è l’atomo spirituale”.
Il nostro corpo non è ovviamente fatto di un atomo, ma anzi può essere ulteriormente suddiviso, ma noi non siamo fatti solo di corpo, non siamo solo scomponibili, abbiamo l’anima. L’anima è un atomo e atomo significa ciò che non si può dividere. Atomo in greco viene poi tradotto in latino con “individu-um”, dove c’è quell’ “in” che si aggiunge a “dividuum”: quell’ “in” è negativo,ciò che non si può dividere, indivisibile e certamente questo era un modo per guadagnare – nella concezione che si aveva dell’essere umano – questo senso di unità. Non solo, ma, questo senso di non scomponibilità aveva anche il si-gnificato di garantirsi l’immortalità: un’anima così concepita è qualcosa di non scomponibile neanche dalla morte. La morte semmai la libera dal corpo, sciogliendola da questo legame con la materia, con tutti i suoi limiti ed ostaco-li, consegnandola alla sua vera natura spirituale.
A proposito del tema dell’immortalità, di questi tempi ho lavorato sul con-cetto di individuo come parte della nostra tradizione di pensiero. Sotto questo profilo, si può affermare che, in fondo, il concetto di “individuo” è un modo non solo per recuperare l’unità e l’immortalità, ma anche per assicurarci sulla “divinità”, sul carattere divino dell’essere umano. I teorici dell’individuo molto spesso formulano questa idea, ossia che l’individuo è un “imago dei”, un qualcosa che riproduce la divinità sul piano dell’essere umano.
Sono concetti che emergono già a cominciare dalla filosofia medioevale e
che proseguono anche nella filosofia moderna (per esempio ho già accennato a Leibnitz). Anche quando il pensiero non è più teologico e si libera da presup-posti e condizionamenti di questo tipo, il concetto di individuo rimane – e tut-tora rimane – come qualcosa di irrinunciabile. Irrinunciabile proprio perché sta ad indicare qualcosa che permane, di non scomponibile e anche come qualcosa di divino.
Approfondendo il tema possiamo legittimamente ampliare la nostra inda-gine rivolgendoci all’analisi degli studi psicologici: riflettiamo, ad esempio, sul momento in cui nel pensiero psicologico questa unità è stata infranta, a partire da Freud e in tanti altri momenti significativi. L’unità si infrange, la molteplicità entra non soltanto nel corpo, ma anche in ciò che prima si chiama-va anima, o se vogliamo chiamarla psiche. Entra la molteplicità, in tanti modi diversi.
Mi sembra di poter affermare che, per esempio, nella psicanalisi di Freud entra la molteplicità ma con un numero finito di fattori: non si ha più a che fare con una psiche unitaria e compatta, ma con una psiche caratterizzata da molte-plicità, da intendersi però come una molteplicità molto ridotta e controllata, costituita da un numero limitato di fattori (Es, Io e Super-io).
La molteplicità che la psicoanalisi riconosce, e che introduce nella psiche, è una molteplicità controllata. Quello che io voglio illustrare a questo punto del discorso è invece una concezione in cui la molteplicità dell’Io, del soggetto – Io generico ( non in senso freudiano) – è molto più indeterminata.
Mi riferisco a quelli che sono i risultati di ciò che noi in antropologia chia-miamo “antropologia della persona”: da vari decenni si è sviluppato questo campo che consiste nello studiare, da parte degli antropologi, le diverse conce-zioni che le società hanno della soggettività umana.
Prendiamo il termine “persona” come termine generico, per indicare ciò che nelle diverse società viene concepito come modello dell’essere umano, “un essere umano” come dovrebbe essere fatto. Uno dei primi antropologi che ha aperto la strada all’antropologia della persona era un missionario, amico pres-soché coetaneo di Marcel Mauss, di cui vi ho parlato prima, ed era Maurice Leenhardt.
La sua famiglia era protestante, suo padre era un pastore protestante, lui stesso lo diventa e va a fare il missionario presso i Kanak della nuova Caledo-nia, dove si ferma per diversi decenni, almeno 25 anni. Leenhardt svolse una doppia attività, quella di missionario e quella di etnologo, pur con tutti i limiti
che oggi saremmo propensi a sottolineare attenti a vedere, e comunque l’etno-logia di Leenhardt è di prim’ordine. In particolare, nel 1947 esce un suo libro intitolato Do Kamo, che vuol dire l’”essere persona”. Il libro di Leenhardt ebbe successo scientifico, per cui la concezione della persona vera e autentica tra i Kanak, come loro la immaginano, diventa nel giro di alcuni anni un modello epistemologico, un qualcosa che non solo viene riscontrato in altre società, ma considerato un punto di riferimento (anche Jacques Lacan era rimasto af-fascinato dal libro di Leenhardt e sembra che certi aspetti delle sue riflessioni risentano della lettura di questo libro).
Allora come è concepita la persona dai Kanak? Immaginatevi dei raggi che partono da un centro e vanno verso l’esterno, seguendo l’immagine for-mulata da Leenhardt e qui riprodotta. Secondo i Kanak questa è la persona, l’insieme di questi raggi, cioè la molteplicità di relazioni che ognuno di noi intrattiene (con un figlio, col vicino di casa, con nonno, zio, con i miei nemici,etc.).
Per i Kanak al centro c’è il vuoto, non c’è nulla, non c’è una sostanza (uso qui questo termine in maniera molto consapevole e pensate quanto il nostro pensiero, psicologico e non, sia dominato da quest’idea della sostanza), non c’è un nucleo che permane a cui si aggiungono via via le relazioni. Questa è una concezione rigorosamente relazionale della persona. Significa che la perso-na cambia e risente fortemente del mutare di queste relazioni: se viene meno una di queste relazioni – se muore qualcuno o una relazione si interrompe – la persona ne risente e ne risente sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo.
Anche per i Kanak, come per molte altre società studiate dagli antropologi, una persona è tanto più persona (do kamo) quanto più ha relazioni e il dimi-nuire delle relazioni indica povertà (tipicamente nell’Africa tradizionale non esisteva il concetto di povertà economica, ma esisteva il concetto di povertà
sociale: sei povero nella misura in cui non hai relazioni). E naturalmente c’è
anche un problema della qualità di queste relazioni: il contrarsi di queste rela-zioni può anche essere un superficializzarsi di queste relazioni e tutto questo incide sulla persona. Qui abbiamo a che fare con una concezione rigorosa-mente e fortemente relazionale della persona, a tal punto che queste rela-zioni non riguardano solo gli esseri umani ma, secondo i Kanak, vanno oltre la sfera dell’umanità, ad esempio sono in relazione con le cose che coltivo nel mio orto.
In questa società e in molte altre il concetto di persona viene dilatato al di là dei confini dell’umanità: per molte società, persone diventano gli esseri animali o gli esseri vegetali. Ormai è tutto un fiorire in antropologia di studi relativi a società in cui la persona non è solo la persona umana. Ha cominciato Leenhardt, ma poi questo tema è diventato importantissimo nell’etnologia di tipo amazzonico, pensate ad autori come Eduardo Viveiros de Castro e Phi-lippe Descola, i quali hanno studiato appunto come il concetto di persona in queste società venga dilatato e attribuito anche ad esseri che non sono umani.
Questo significa che il nostro essere dipende anche da questi rapporti di affinità e di parentela con il resto della natura.
Con questo volevo farvi vedere come qui la molteplicità all’interno della soggettività è una molteplicità molto ampia ed è diversa da quella introdotta dal pensiero psicoanalitico: è una molteplicità indefinita, mentre invece nel pensiero psicoanalitico è decisamente più ridotta, definita, controllata.
Come dicevo, quello dei Kanak è diventato un modello e punto di riferi-mento: dopo alcuni decenni dalla pubblicazione del libro di Leenhardt si è sviluppata notevolmente l’antropologia della persona e in moltissime società abbiamo trovato modelli analoghi – se non esattamente identici – dove figura questa molteplicità di relazioni di cui è fatta la persona.
Gli antropologi che lavoravano nell’India meridionale e quelli che lavorava-no nella Nuova Guinea ad un certo punto hanno cominciato a parlare di “con-cezione dividuale” della persona e si sono sempre più affezionati al termine dividuo in sostituzione di individuo. Il termine dividuo sta a significare non soltanto la molteplicità delle relazioni, ma una cosa ancora più precisa, ossia che queste concezioni escludono l’idea di un nucleo da cui partono o in cui convergono le relazioni, un qualcosa di duro e di permanente, qualcosa che “ri-mane”. Ciò ha dato luogo a un dibattito interno all’antropologia della persona.
L’antropologa inglese Marylin Strathern, grande studiosa del concetto di
persona in Nuova Guinea, ha introdotto il problema, ponendo questa domanda: ma siamo sicuri che – secondo le concezioni dividuali – al centro c’è il vuoto?Un conto è dire che non c’è un nucleo sostanziale, un conto è dire che c’è il vuoto. Lei ha introdotto un dubbio. Immaginate una persona che abbia qual-che problema psichiatrico: descrive una molteplicità non coordinata. E allora è venuta sempre più fuori l’idea non di una sostanza (questa la lasciamo alla tradizione occidentale che si ispira a Platone), ma di funzioni di coordina-mento: un minimo di coordinamento ci deve essere, sennò qualsiasi eventosposterebbe la soggettività da un punto a un altro, la disgregherebbe.
Gli antropologi hanno individuato in affermazioni fatte da filosofi del Sei-cento e del Settecento intuizioni e conferme. Per esempio Pascal sosteneva che ”l’io è un noi”, allorché paragonava l’io a una città: se tu ti metti su una collina e la vedi dall’alto ti dà l’impressione in qualche modo di una sua unità; se invece ti avvicini e ti ci addentri scopri una molteplicità di affetti, emozioni, idee, pulsioni e altro ancora.
In modo più sistematico il pensatore che ha introdotto quest’idea dell’io come noi è David Hume. Per Hume l’io è un flusso perpetuo di percezioni, un flusso continuo di relazioni. Egli metteva anche in luce il fatto che questo flusso non è del tutto disordinato, ma viene in qualche modo coordinato dalla memoria (quello che mi sta capitando ora lo collego con episodi del passato) e dall’immaginazione. Hume sosteneva che c’è molteplicità dentro la sogget-tività, ma c’è anche una certa qual organizzazione e così paragonava l’io auna repubblica che ha le sue leggi, le quali possono anche cambiare col tempo. Le leggi della repubblica di Hume coincidono con le funzioni di coordinamen-to di cui abbiamo parlato prima.
Molteplicità, relazionalità: l’antropologia della persona si sta occupando di cosa c’è al posto del vuoto, dicendo che ci sono delle funzioni di coor-dinamento.
Non una sostanza che svolge delle funzioni, ma funzioni senza sostanza. Quando dico “coordinamento”, pensiamo al fatto che questa molteplicità den-tro di noi significa anche che ci vuole un minimo di coerenza. C’è molteplicità dentro di me, ma c’è bisogno che ci sia un minimo di coerenza tra ciò che faccio, così come appaio nelle relazioni in cui mi trovo a operare. Coerenza come somiglianza, tra ciò che faccio adesso, che facevo ieri, dieci anni fa un po’ meno, quello che farò domani, e così via… chiaro? in modo che il mio
comportamento di adesso non sia del tutto imprevedibile.
Pensate a cosa vuol dire questo dal punto di vista sociale. Il tema del rico-noscimento sociale, le persone che un po’ mi conoscono quando mi rivedono mi ri- conoscono perché vedono somiglianze tra ciò che dico, ciò che faccio, anche il mio aspetto fisico e ciò che dicevo, facevo 10 anni fa. È importante che nella società ci sia questo grado di riconoscimento, perché è la garanzia di un minimo di ordine. Io mi aspetto da quelle persone un certo comporta-mento, che non sarà uguale ma simile e io mi accontento di questo grado di somiglianza. Coerenza, continuità (coerenza spalmata nel tempo) e a questo proposito diventa molto importante l’espressione “un po’”, espressione che ha una sua virtuosità. Provate a pensare a soggetti dotati di una coerenza e conti-nuità estrema: dovranno chiedere aiuto agli psicoterapeuti! o al contrario, pen-siamo a soggetti privi di coerenza e di continuità, o con troppo poca coerenza e continuità: anche loro dovranno ricorrere agli psicoterapeuti. Allora possiamo dire che i soggetti si barcamenano tra coerenza e incoerenza, tra continuità e discontinuità, scegliendo – se possono – quell’un po’ che è una via di mezzo, mai preventivamente definita o tracciata, ma di volta in volta inventata tra un fallimento e l’altro.
In questi anni ho lavorato sull’antropologia della persona e dopo aver rece-pito e fatto mio il passaggio dalla concezione “individuale” a quella “dividua-le”, mi sentirei ora di fare una proposta sulla base dei concetti di continuità, coerenza, funzioni di coordinamento all’interno della psiche e tra la psiche e il corpo; mi sentirei di proporre in conclusione questa tesi, che ho illustrato nel mio ultimo libro (Somiglianze. Una via per la convivenza, Roma-Bari, Laterza, 2019, cap. VII): noi non siamo individui, e neppure dividui; siamo invece (come tutti gli esseri viventi) condividui.
Cristiana Novero
Psicologa, psicoterapeuta, past president APRAGI. Specialista ambulatoriale Dipartimen- to di Salute Mentale Rete Ospedale Territorio Nord-Ovest. Referente degli psicologi ROT Nord-Ovest. Svolge la propria attività presso il SPDC dell’ospedale Amedeo di Savoia e il Centro di Salute Mentale.
Il Seminario organizzato con la Scuola di Psicoterapia della C.O.I.R.A.G. pre-vede la partecipazione di tutti gli allievi della Sede di Torino e si inserisce nel loro programma didattico dell’anno. Per l’Associazione A.P.R.A.G.I., il Semi-nario costituisce l’occasione per sistemizzare con puntualità e chiarezza alcu-ne esperienze portate avanti dai Soci negli anni e ancorarle ai modelli teorici alle quali fanno riferimento.
I desideri rispetto alla giornata sono diversi: presentare e riflettere sulle esperienze che sono sia cliniche sia comunitarie, trasmettere in maniera chiara un metodo e soprattutto trasmettere ai partecipanti la fiducia in uno strumento, il gruppo, che declinato in setting differenti e pensato intrinsecamente costitu-tivo del mentale, possa essere inteso come dispositivo che promuove l’essere e il fare una professione responsabilmente intesa, sia essa applicata alla clinica sia essa pensata per interventi comunitari.
Nella costruzione della giornata si è pensato di proporre una sinergia tra quelli che potremmo definire gli aspetti che afferiscono principalmente al livello co-gnitivo, le relazioni, con quelli che nel corso della giornata si andranno a strut-turare a livello affettivo attraverso la partecipazione all’esperienza nei gruppi. A partire dalla presentazione delle relazioni che descrivono l’sperienza di gruppi che vanno dal piccolo gruppo terapeutico, passano dal gruppo mediano psico-sociale e si concludono con la descrizione dell’esperienza del Gruppo Allargato, parallelamente si farà insieme esperienza di ciò viene presentato nelle relazioni attraverso il gruppo mediano e due sessioni di Large Group.
Una definizione molto essenziale e sobria, se vogliamo, lascia scorgere lo specifico di un modo di intendere il lavoro attraverso i gruppi, quello gruppo-analitico A.P.R.A.G.I.: il gruppo è pensato come un contenitore nel quale far accadere processi e il setting che andiamo a definire regola il processo che vogliamo attivare e promuove per il raggiungimento di obiettivi specifici.
Con questa lente, che possiamo dire gruppoanalitica A.P.R.A.G.I., usata di volta in volta in maniera coerente, possiamo pensare e allestire sia interventi clinici, sia interventi psico-sociali, sia interventi rivolti alla comunità.
Nella giornata verranno presentati setting di gruppo che costituiscono una mappa dei gruppi possibili, ben inteso non gli unici gruppi possibili, e la cen-tratura sarà proprio sui pensieri che hanno guidato il terapeuta nell’allestimen-to, nella conduzione, e nel perseguimento delle finalità.
Le esperienze si riferiscono ad ambiti applicati molto diversi che vanno dal privato-sociale, al contesto psico-sociale a quello comunitario.
Il gruppo come luogo di pensiero sull’esperienza, il gruppo che apre all’e-sperienza e contestualmente alla possibilità di pensare all’esperienza che si sta facendo, proprio perché il conduttore può fermare il flusso dell’esperienza mentre la si sta esperendo, specificità analitica in un’epoca, la nostra, che sem-bra per lo più promuovere il fare.
Nel corso della giornata si vuole portare l’attenzione a rendere visibile ciò che solitamente rimane in filigrana:
• l’attenzione alla contestualizzazione: si interrogano i sintomi, le epoche, i contesti sociali…
• l’attenzione alla fase di analisi della domanda
• l’obiettivo comune che vuole promuovere la crescita personale e l’amplia-mento delle risorse personali e sociali
• l’attenzione costante a pensare e problematizzare le scelte di conduzione (propri del contesto e delle finalità del gruppo): cosa rimando? cosa sottoli-neo? cosa facilito? cosa interpreto? perché e quando lo faccio?
• la riflessione sul metodo, la costante con la quale leggere gli interventi dei relatori, dei conduttori dei gruppi mediani e del Large Group, dei parteci-panti tutti.
Manuela Serra
Psicologa, psicoterapeuta, Socia APRAGI, Past President Cooperativa Arcipelago, svolge attività libero professionale, terapeuta practitioner EMDR
Il tema che oggi sono chiamata a discutere con voi riguarda la clinica dei gruppi e, in particolare, in che modo la clinica dei gruppi, l’allestimento di gruppi di psicoterapia, si declina nella nostra Cooperativa Sociale.
Innanzi tutto può essere utile partire dalla storia della Cooperativa. Que-sto perché, ragionando in un’ottica gruppoanalitica, diventa importante tenere conto del contesto entro cui l’esperienza prende forma (cioè delle tradizioni culturali, della teoria del progetto del conduttore e del suo gruppo di riferi-mento).
Arcipelago “Centro di gruppoanalisi applicata”, dunque, è una Coope-rativa Sociale nata a Torino a marzo 2008, per iniziativa della associazione A.P.R.A.G.I. che a sua volta è nata, 30 anni fa, dall’incontro tra diversi indiriz-zi dell’operare in gruppo ed è membro attivo di diverse realtà, COIRAG, IAGP.
Da quel che si evince, dunque, la culla di pensiero entro cui è nata Arcipela-go, ha una complessità di ricchezze nel suo DNA, una storia di convivenza di approcci differenti alla psicoterapia di gruppo.
In termini pratici pensare in modo complesso significa cogliere i movimenti del tempo in cui si vive, mettendosi in dialogo costruttivo, non ideologico, con i movimenti sociali, le opportunità e vincoli che si incontrano lungo la strada.
Questa è da sempre una caratteristica di A.P.R.A.G.I., caratteristica che ha permesso oltre 10 anni fa di cogliere la proposta della fondazione Oltre.
L’idea, già realizzata a Milano qualche anno prima, consisteva nell’allestire un Centro in grado di fornire prestazioni psicologiche a tariffe calmierate. Sul territorio torinese a sostenere tale progetto c’era anche la Fondazione Paideia, sempre promotrice di progetti ed interventi in campo sociale.
Si è arrivati ad progetto e ad un nome, “Arcipelago”. Si è optato per la For-ma giuridica della Cooperativa Sociale per la volontà di rispondere ai bisogni
insoddisfatti presenti, rinnovando l’offerta di servizi del territorio.
Bisogna, inoltre, ricordare la crisi economica che in quel periodo colpiva l’Italia e l’Europa intera, per cui il “Progetto Arcipelago” rappresentava una risorsa nella crisi, sia per coloro che si potevano avvalere dei suoi servizi, sia per i giovani colleghi che trovavano una collocazione lavorativa in un mo-mento economico difficile. Il prodotto è stato un servizio qualitativamente competitivo, che metteva insieme l’offerta di servizi a prezzi calmierati, non rinunciando a un pensiero consolidato e in continua evoluzione rappresentato da A.P.R.A.G.I., di cui tutti i membri di Arcipelago sono soci.
Come si diceva, la forma giuridica scelta, non casualmente, è quella della Cooperativa sociale.
Arcipelago, infatti, nel suo fare clinico si muove mantenendo sempre un’at-tenzione vigile sui bisogni della popolazione, come vi racconterà nel suo inter-vento la Dott.ssa Gianaria, e più in generale, tentando di collocarsi nello spirito del tempo cercando di rispondere ai bisogni clinici emergenti.
In quale contesto sociale siamo, dunque, immersi? Per un gruppoanalista questa è una domanda cruciale dal momento che, come sostiene Foulkes: “Ciò che è all’interno è all’esterno. il sociale non è esterno ma molto interno e pene-tra la parte della personalità individuale”.
Per citare lo storico Harari la società contemporanea che ha attraversato la crisi economica del 2008, sta subendo ulteriori cambiamenti rapidi e veloci, per quanto riguarda l’evoluzione dell’intelligenza artificiale, delle biotecnolo-gie e della minaccia sempre più visibile del cambiamento climatico. Questi fenomeni ci mettono nella condizione di percepire quanto stia profondamente mutando la proposta di mondo che conosciamo.
Una delle prime conseguenze di questo stravolgimento è l’impossibilità, per gli esseri umani, di esercitare controllo su tali mutamenti. Sempre di più siamo vulnerabili e come controreazione a questo stato, innalziamo le nostre difese, le nostre emozioni che si basano sul metterci “al centro dell’esistenza”, di-ventiamo “cattivi” nel senso etimologico di “captivus” ovvero catturati da noi stessi, imprigionati. Questo lo si riscontra a livello sociale e a partire dai feno-meni mondiali che vedono l’emergere delle destre, il nazionalismo, la chiusura, come reazione alla complessità dei fenomeni e alla loro spaventosa portata. Un tempo come esseri umani ci sentivamo al Centro del mondo, attualmente la complessità dei fenomeni in gioco e l’impossibilità di conoscerli ci mette nella condizione di sentirci sempre più irrilevanti.
Visivamente ciò, a mio parere, è ben rappresentato dall’opera “Mobile” di Calder.
È un’opera del 1932: quando l’artista la realizza, una guerra mondiale è fini-ta portandosi via tutte le certezze di una generazione che negli anni, in preda ad uno stato maniacale, come ci raccontano Bollas e Harari, credeva di posse-dere il mondo. Un’altra guerra è alle porte, la realtà sta cambiano in direzione della più grande rivoluzione tecnologica mai immaginata prima. Calder allora ci rappresenta una forma disintegrata in piccolo frammenti tenuti insieme da un filo. La scultura, che fino ad allora rappresentava nell’arte l’emblema di solidità, si trasforma e diventa leggera e mutabile ad un solo soffio di vento.
Come Impresa sociale e “Centro di gruppoanalisi applicata”, non possiamo non avere in mente tali fenomeni nel fare clinico, un fare clinico che neces-sariamente si incontra con le declinazioni intrapsichiche e relazionali di tali fenomeni.
A tal proposito, Bollas nel suo libro “L’età dello smarrimento” mette in evi-denza una serie di cambiamenti rispetto al funzionamento mentale che, a par-tire dall’ industrializzazione fino ad arrivare all’era del mondo globale, hanno profondamente cambiato la natura e la funzione del sé a favore della sempli-ficazione della complessità. Sempre di più come clinici e soprattutto come gruppisti, siamo chiamati a interrogarci sulle configurazioni difensive che in-contriamo e che sono profondamente influenzate dalla società contemporanea.
Per esempio uno dei fenomeni descritti da Bollas è la tendenza, credo in buona parte di noi, a vivere in una dimensione connessa e disconnessa con
emporaneamente, connessa allo smartphone e disconnessa dalla situazione in cui ci troviamo. Il fenomeno che si genera e una nuova funzione assunta del sé, “il sé trasmissivo”, ossia la trasmissione di informazioni senza riflessione, l’orizzontalismo, cioè la tendenza a mettere tutto sullo stesso piano, “il sé ri-frattivo” che elimina il significato, tralasciando contenuti salienti della comu-nicazione e l’operazionismo che si nutre del raggiungimento veloce dell’ob-biettivo. Tali meccanismi fungono da adattamento ad una richiesta costante di velocità e prestazione.
Sia Harari sia Bollas indicano come rimedio a questo fenomeno il rallentare la velocità, l’uscire dall’astrazione facile, prendersi il tempo per riattivare le nostre funzioni, riscoprire cosa significa essere un soggetto attraverso il piace-re dell’introspezione.
Le terapie di gruppo si collocano nel novero degli interventi in grado di fornire, “robuste esperienze reali”, come in un seminario organizzato da A.P.R.A.G.I. su questi temi ci suggeriva La Prof.ssa Silvia Bonino. D’altronde, come sosteneva Foulkes:
“la psicoterapia di gruppo riporta semplicemente il problema alla sua sede di appartenenza. La comunità è rappresentata dalla stanza di trattamento. Va-lutazioni e norme sono riformulate per confronto, contrasto e analisi”.
Il gruppo infatti è un appuntamento costante in cui alla performance è sosti-tuita la riflessione e lo scambio di idee. In questo modo le esperienze si fanno profonde e si accede ad una dimensione di condivisione con l’altro presente realmente.
Nella dimensione del gruppo ogni pensiero e modo d’essere trova diritto di cittadinanza e diventa importante rispettarlo, cosa tutt’altro che facile.
Tale assetto diventa particolarmente attuale, nell’epoca dei muri e delle intolleranze. Abbiamo bisogno di tollerare la complessità dell’esistenza. Nel gruppo si impara a partire dalla propria debolezza, nel gruppo se ne fa espe-rienza abbondante, ci si sente persi, zittiti o costretti a parlare, si provano gran-di emozioni, entrano in campo i corpi, con le loro istanze prepotenti. La con-dizione di debolezza e di fragilità, però, se sostenuta, porta ad empatizzare con gli altri per il necessario entrare in contatto fisico ed emotivo con loro. Questa è la differenza che anche Harari sottolinea rispetto alle connessioni di facebo-ok e instagram, lì ci si sente parte di una comunità globale, ma l’homo sapiens pare sia incapace di conoscere intimamente più di 150 persone.
Il gruppo ci permette di notare quanto nella nostra quotidianità viviamo iso
lati, chiusi nelle nostre strutture familiari e nelle nostre convinzioni e ci aiuta a vedere noi stessi e gli altri in modo diverso.
Spesso infatti tale prospettiva viene meno in contesti di vita rigidi, come i tempi in cui viviamo e questo determina un blocco dello sviluppo personale, nella direzione indicata da Bollas. Il gruppo psicoterapeutico può contribuire a rendere più fluida la percezione di se stessi aumentando il livello di tolle-ranza verso le proprie caratteristiche e verso quelle degli altri. Ciò potenzia in modo significativo la capacità di vivere le situazioni che si presentano. Educa i partecipanti ad essere dei buoni cittadini, consapevoli della propria e delle altrui sfaccettatura.
Vignetta Clinica
I gruppi psicoterapeutici attualmente presenti in Arcipelago sono 5. A questi si aggiunge un gruppo di sostegno rivolto a familiari di pazienti psichiatrici e un gruppo rivolto a familiari di bambini affetti da DSA all’interno del proget-to Feurstein che in questa sede non mi dilungo a raccontare. Entrambi sono finanziati con i proventi del 5 per mille della Cooperativa.
Il gruppo di cui vi parlo è un gruppo eterogeneo, semi aperto, composto da 5 membri.
È nato a ottobre 2016 e dalla sua fondazione ad oggi la composizione è totalmente cambiata. I membri attuali sono in assetto stabile da un anno circa.
È importante sottolineare che la costruzione del gruppo è avvenuta nell’am-bito dello spazio di supervisione presente in Cooperativa, dedicato proprio ai gruppi. Sostegno, pensiero e riflessione sono stati dedicati alla nascita di questo progetto, come da prassi della Cooperativa e come il nome di Arcipelago, ossia “Centro di gruppoanalisi applicata” suggerisce. Come avrete notato, il gruppo è nell’assetto attuale da circa un anno, il raggiungimento della stabilità non è stato semplice, in questo senso è stato utile il supporto e la presenza dei colleghi. La storia trasgenerazionale della Cooperativa, lo stretto legame con A.P.R.A.G.I. e la lunga tradizione gruppale, ha sostenuto la fiducia e la tolleranza della frustra-zione, entrando nel campo cotransferale, influenzando e sostenendolo.
Il gruppo è composto da due maschi e tre femmine.
Chiara 44 anni, è stata lungo in terapia individuale. Sarebbe dovuta entrare in gruppo già nel 2016, ma a causa di sue resistenze è approdata al gruppo nel 2017. Chiara è rigida e spesso giudicante, non riesce ad avere una relazione affettiva stabile ed è molto impegnata a proteggersi dagli altri.
Beatrice 39 anni, una donna timida ed introversa, con una scarsa autostima dovuta a genitori particolarmente opprimenti e giudicanti nei suoi confronti. Ha una relazione da 5 anni circa con un uomo più grande di cui non sembra particolarmente innamorata. Il suo obbiettivo è quello di poter vivere non pre-occupandosi troppo del giudizio altrui.
Martina, 35 anni è in gruppo da un anno circa. Ha chiesto autonomamente di iniziare una terapia di gruppo, perché si sente aiutata a non autocentrarsi. È una donna intelligente e empatica, ha una storia familiare molto dolorosa. Soffre molto l’ambiente lavorativo, luogo in cui sente di aver subito alcuni torti.
Maurizio, 49 anni è in gruppo da circa un anno. Soffre di una rara malattia genetica a causa della quale assume quotidianamente dei farmaci. Soffre di ansia e di depressione che esprime con sintomi fisici e anedonia. Ha una com-pagna da un po’ di anni
Lorenzo, 29 anni soffre di fobia sociale ed è stato trattato per lungo tempo da un collega in terapia duale. Attualmente riesce a lavorare, ma fatica ancora molto nelle relazioni interpersonali.
Il periodo a cui faccio riferimento ha inizio un paio di mesi prima dell’inter-ruzione estiva, fine aprile, inizio maggio 2019.
Chiara, il membro che forse più di tutti esprime più rigidità, pone una questione. Su un post su facebook ha letto di un meccanismo di difesa, la proiezione, lo trova davvero curioso, secondo lei una teoria bizzarra alquanto inattendibile, come è possibile che si attribuiscano sentimenti propri agli al-tri? Vengo tirata in ballo per una disquisizione tecnica sul termine, rimando la discussione al gruppo, invitandoli a esprimersi in merito. Cerco in questo modo di mantenere attiva la curiosità e invitare all’esplorazione, sganciando le associazioni da una disquisizione meramente intellettuale e difensiva. Il grup-po comincia a esprimersi, quasi tutti cominciano a pensare che possa essere possibile. Mentre la discussione è in corso Chiara continua a cercare il post su facebook ma non lo trova. È immersa nel suo smartphone e ogni tanto emerge per dire che non sa dove sia finito, alla fine rinuncia alla ricerca, ma siamo alla fine della seduta. È presente ma dissociata allo stesso momento.
La seduta seguente Martina dice di essersi resa conto di qualcosa che riguar-da la proiezione. Ha pensato molto ai discorsi fatti la scorsa volta e le è venuto in mente che spesso si lamenta di non sopportare la sua amica. Si tratta di una persona insistente e lamentosa, ci ha pensato e spesso sente che nel gruppo le viene rimandata la sua insistenza, forse per questo non la sopporta, si chiede se
la proiezione sia questo. Tutti sembrano annuire, ciò che porta Martina sembra aver dato al gruppo una certa consapevolezza del meccanismo, adesso tutti ne sembrano convinti, anche Chiara.
Martina sembra essere entrata in risonanza con il problema introdotto da Chiara e inizia un lavoro per il gruppo, attraverso di sé, di metabolizzazio-ne dei contenuti, metabolizzazione che fornisce al gruppo e a Martina stessa, un’elaborazione del materiale portato.
Le sedute continuano, siamo ormai a metà maggio e il gruppo è impegnato nel suo lavoro, Maurizo sente un po’ di “stanca” nel gruppo pensa che i proble-mi degli altri siano banali, non si sente in sintonia, si annoia. Chiara si scalda e gli dà del pigro. Da questa litigata Maurizio si sente rivitalizzato come se fosse successo qualcosa di importante perché intenso.
In questa fase sembra che il gruppo cominci a fare un passaggio importante verso la possibilità di elaborare contenuti inconsci e aspetti cristallizzati delle matrici personali dei partecipanti. La conduzione, prova a fermare la rifles-sione, in primo luogo per contrastare la tendenza contemporanea a puntare sull’operatività e la performance veloce come ci racconta Bollas e in secondo luogo per invitare il gruppo a riflettere su quanto accaduto come riflessione sulla vita del gruppo in quel momento. Sembra infatti che si stia formando una mente gruppale a cui i partecipanti affidano la propria storia riattualizzandola nel “qui e ora”, essendo però sostenuti in questo processo.
Poche sedute dopo Beatrice pone al gruppo un problema, deve dire ai suoi genitori che andrà in vacanza in India, i suoi genitori non sanno neppure della sua relazione con il fidanzato. Chiara inizia una lunga invettiva in cui accusa Beatrice di essere come quelli che si accontentano pur di stare con qualcuno. Il gruppo rimane perplesso dalla reazione di Chiara, si accorge che sta riversan-do su Beatrice “il complesso della propria “singletudine” ma più in generale la sofferenza che le crea il suo essere imperfetta. Tentano, in particolare Mauri-zio e Lorenzo di spiegare a Chiara che il problema di Beatrice è l’autonomia, la tendenza a dover pensare prima agli altrui che ai propri bisogni, avendo paura di essere giudicata e abbandonata. Chiara non accetta le parole di Maurizio e Lorenzo. Si unisce anche Martina che a questo punto si arrabbia con Chiara dicendole con molta chiarezza che sta proiettando i suoi problemi su Beatrice. Chiara piange e si sente non compresa.
Dopo questa seduta Chiara chiede di uscire dal gruppo perché il gruppo non la può aiutare a trovare un fidanzato. Chiara trova il modo di evacuare nel
gruppo la parte di sé “inadeguata” attribuendola al gruppo stesso.
A differenza degli altri Chiara non riesce a reggere il lavoro sulla propria matrice proposta dal gruppo. Ad ogni modo le relazioni di vicinanza che si sono costruite e che sono entrate a far parte della cultura del gruppo, fanno si che Chiara si dia un tempo per vivere la sua uscita senza scappare sull’onda dell’emozione, si riesce a fermare l’agito.
Alla notizia dell’uscita di Chiara dal gruppo Martina sta molto male, era legata a Chiara, sente il gruppo disgregarsi. Vive intensi momenti d’ansia, si arrabbia con Chiara, le chiede scusa, soffre molto. Chiara dice che non riesce a tollerare il dolore di non avere un fidanzato, come può fare? Maurizio dice che “è importante vivere senza lasciarsi bloccare dai propri dolori”.
Intanto in modo intenso e rocambolesco siamo arrivati alla sospensione estiva.
A settembre sono tutti presenti, il gruppo si ritrova, si percepisce che tut-ti sono interessati a vivere quello che sentono un momento importante della vita del gruppo. Chiara torna dicendo che è stata bene in vacanza, oltre le sue aspettative, è andata da sola in un viaggio organizzato, al lavoro è più tolle-rante. Le hanno fatto bene le parole che Maurizio le ha detto l’ultima seduta quando chiedeva come rassegnarsi al dolore di non avere un fidanzato “vivi e intanto aspetti che quello che desideri si realizzi”. (Sembra che le parole di Maurizo abbiano avuto il potere di desaturare un po’ la matrice personale di Chiara). Così ha cercato di fare nell’estate ed è andata bene, si sente meno pole-mica. Maurizio le chiede se sia sicura di lasciare il gruppo, Chiara sente di non voler retrocedere. Il gruppo ha l’opportunità di riprendere quanto successo negli ultimi mesi. Si rimanda a Chiara la sua intolleranza verso ciò che pensa essere un difetto “l’essere senza fidanzato” difetto che attribuisce agli altri de-finendoli “razzisti” verso i single, cosa che loro ( il gruppo) non sono. A questo può servirle il gruppo, a riconoscere il proprio funzionamento con gli altri, non ad avere un fidanzato. A queste riflessioni si unisce Maurizio che crede di essersi focalizzato su problemi concreti, tralasciando le vicende emotive, forse ha ridotto così l’efficacia che il gruppo poteva avere su di lui.
Il gruppo ha permesso di allargare i pensieri ed approfondirli, è diventato la mente attraverso cui gli individui elaborano i propri problemi.
Si arriva, infine all’ultima seduta di Chiara, tutti esprimono il loro dispia-cere e la necessità per Chiara di tenere a bada le sue “proiezioni”. Viene fuori l’immagine della lente di ingrandimento che con cui noi stessi evidenziamo e
ingrandiamo i nostri difetti per poi attribuire agli altri le critiche. Chiara, vuole tatuarsi questa immagine, le servirà da monito, vuole però provare a cammina-re da sola, ringrazia il gruppo per averle mostrato il suo funzionamento.
Quello che sembra essere accaduto nel gruppo è che si sia formata una sorta di pelle mentale, a tal proposito Anzieu dice: “un gruppo è un involucro che tiene insieme degli individui. Finchè questo involucro non si è costituito, si tratta di un aggregato umano ma non di un gruppo. Un involucro che racchiude i pensieri, le parole e le azioni e permette al gruppo di costruire uno spazio interno.
Credo che sia stata proprio la creazione di questo spazio interno al gruppo a permette l’elaborazione di contenuti inconsci profondi. Purtroppo Chiara non è riuscita a passare al livello di elaborazione verso cui il gruppo sta proceden-do, ma ha potuto riconoscere meccanismi importanti del suo funzionamento. Lo spazio creato dal gruppo, la pelle del gruppo, come la chiama Anzieu, credo abbia favorito tale processo.
Credo che lo stesso meccanismo permetta l’elaborazione e l’approfondimen-to della semplificazione del funzionamento mentale proposto da Bollas. Inoltre penso sia importante sottolineare come la mente del piccolo gruppo di psicote-rapia sia sostenuta dalla mente del gruppo di supervisione, sostenuto dalla Co-operativa che è sostenuta da A.P.R.A.G.I.. Ciò ha permesso la costruzione di un campo transferale tale per cui è possibile sostenere attraversamenti inconsci a volte pericolosi, portando la nave in porto o al meno fuori dalla tempesta.
Ci è voluto tempo, tolleranza, possibilità di calmare i picchi emotivi, fiducia di andare nel profondo. Chiara crede ai rimandi del gruppo, perché ha impara-to ad entrare in relazione con gli altri membri. Ha potuto, cioè, sperimentale un nuovo modo di stare in relazione attraverso nuove proposte relazionali attivate dalla matrice dinamica del gruppo. Il gruppo ha potuto permette quindi di allargare l’esperienza e superare la tendenza alla semplificazione.
Tutto ciò continua nel lavoro che il gruppo sta portando avanti, attraverso il continuo incontro con l’altro e dunque con se stessi. Come sosteneva Folukes infatti:
“La psicoterapia riguarda sempre la persona intera: l’essere umano è un an-imale sociale, non può vivere in isolamento. Per vederlo nella sua interezza, bisogna vederlo in gruppo, in quello in cui vive e in cui sorgono i suoi con-flitti, oppure, al contrario, in un gruppo di estranei in cui può ristabilire i suoi conflitti in cultura pura”. S.H. Foulkes.
Marta Gianaria
Psicologa, psicoterapeuta, Socia APRAGI, socia Arcipelago, docente Dinamiche dei gruppi presso Università degli Studi di Torino.
Premessa
Io vi parlerò di gruppi in età evolutiva: quest’esperienza è orientata dal mo-dello gruppoanalitico che come pensiero a monte ha determinato le scelte e le configurazioni d’intervento, oltre che la modalità di utilizzo dei gruppi che vi descriverò.
Questo lavoro proviene dalla mia esperienza di tirocinio Coirag, in un am-bulatorio di NPI, dove ho osservato e “imparato ad usare” questo dispositivo di gruppo secondo il modello teorico della gruppoanalisi: il sottotesto è che gli individui e i loro disturbi sono da guardarsi e da trattare all’interno dei loro contesti, attraverso l’analisi e l’elaborazione dei loro gruppi famigliari e sociali.
Il lavoro di cui vi parlo è realizzato a partire dal centro clinico in cui lavoro, Arcipelago, che poi è la cooperativa di terapeuti di cui vi ha parlato Manuela Serra poco fa e si contestualizza, in continuità con A.P.R.A.G.I..
Ritengo indispensabile descrivere alcuni elementi della situazione che sto per descrivere, quindi inizierei dandovi alcuni dati generali sul contesto e i suoi bisogni, nella situazione contingente attuale: partiamo in sostanza dall’e-sistente per capire come intervenire.
Rispetto alla situazione generale il MIUR (ufficio Statistica e Studi) ci dice che nel 2016/2017 rispetto alla totalità della popolazione scolastica gli alunni con DSA (Disturbi specifici del’apprendimento) sono il 4,2 % del totale, dato in forte crescita. Oltre ai DSA gli alunni con una disabilità sono circa il 3% del totale e i problemi riguardano in minima parte le disabilità fisiche e per il 73% si riferiscono alla sfera mentale, relazionale e dei comportamenti, che sono la quota più rilevante. Tra questi in primis i disturbi del comportamento e dell’at-tenzione; i disturbi dello sviluppo e quelli della sfera affettivo relazionale.
Tenete presente che il dato non va preso come una fotografia sull’andamento della salute nella popolazione ma richiede come sempre una lettura ponderata: sui DSA in Italia ad esempio l’aumento del disturbo è anche legato all’introdu-zione della legge 170/2010 sulla certificazione dei DSA. Con l’entrata a regime della legge inizia la rilevazione del fenomeno che prima verosimilmente esi-steva in una forma sommersa e con proporzioni che non possiamo sapere con certezza. Stesso discorso vale per il restante tipo di problemi: una maggiore sensibilità e cultura psicologica nel corpo insegnate contribuisce alla crescita nella rilevazione del disagio. L’incidenza crescente in ogni caso è un fenome-no complessivo infatti l’ultima revisione del Manuale Diagnostico e Statistico dell’Associazione degli Psichiatri Americani (APA, DSM 5, 2013) ha innalzato le stime di prevalenza di questi disturbi dal 2-10% (APA, DSM 4-TR, 2000) al 5-15%.
[Sull’interpretazione del dato relativo alla crescita dei disturbi nella popolazione è indispen- sabile sottolineare l’utilità di una lettura ponderata, rispetto alle fonti e rispetto all’incidenza di elementi contingenti, ma non è questo l’oggetto del seminario e quindi non mi dilungo. Faccio solo cenno come curiosità articolo uscito sull’ultimo numero di Micromega, profes- sore alla Stanford University (Bergstorm) e un biologo alla Washington University di Seattle (Marcus Feldman). I due hanno inaugurato nel 2017 nella stessa università un corso dal titolo, Calling bullshit, che ha saturato i posti disponibili nel primo minuto d’iscrizioni ed è stato poi replicato in una cinquantina di università nel mondo. Il corso insegna come non farsi ingannare da ragionamenti fallaci e dati viziati alle fonti o gonfiati perché, ad esempio secondo il British Medical Journal, il 40 % dei comunicati stampa in materia di ricerca e provenienti da parte degli organi ufficiali portano conclusioni esagerate o non sorrette dai dati.]
Dunque anche facendo le dovute tarature diciamo che un’area problematica è verosimilmente in crescita e quindi interventi in età evolutiva trovano nel sociale un terreno di(eliminare) fertile di bisogni a fronte di risposte a volte carenti.
[Oltre a questo teniamo anche presente i costi economici e umani che ha un disturbo non trattato in età evolutiva: su questo non posso dilungarmi ma vi do il riferimento per chi in- teressato di una bellissima ricerca di terre des hommes in collaborazione con l’Università di Bologna che vi consiglio caldamente di leggere.]
Nel nostro lavoro abbiamo utilizzato come criterio d’inclusione i Bes (Bi-sogni educativi speciali), scegliendo di non tararci su un’etichetta diagnostica, ma volendo intercettare il bisogno psicosociale della popolazione minorile in senso ampio.
[(esigenze educative che possono manifestare gli alunni, anche solo per determinati periodi, «per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. La normativa suddivide cosi i BES in tre grandi sotto-categorie: disabilità (tutelati dalla L.104/92), disturbi evolutivi specifici (tra i quali i DSA, tutelati dalla L.170/2010, e per la comune origine evolutiva anche ADHD e borderline cognitivi), e quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. In ambito clinico esistono anche altri disturbi o situazioni non menzionati specificamente dalla Direttiva, quali ad esempio i disturbi dell’apprendimento non specifici, i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, gli alunni plusdotati intellettivamente (i cosiddetti “gifted”), ecc., che possono essere ricompresi tra i BES.]
Ombrello ampio quindi di situazioni problematiche evidenziate a livello scolastico, in cui alla rilevazione del problema non segue necessaria-mente una presa in carico. Su questo progetto abbiamo richiesto e ottenuto un finanziamento da una fondazione bancaria.
Abbiamo avviato nella prima edizione 3 gruppi a termine per i bambini e in parallelo 3 gruppi di genitori che hanno lavorato lungo il corso di un anno. Nella prima edizione abbiamo saturato i posti disponibili: sono state inserite 20 famiglie per un totale di 50 persone di cui circa 20 bambini e una trentina di genitori che hanno composto 6 gruppi. Il progetto è tuttora attivo e prosegue nelle edizioni annuali.
Abbiamo immaginato su questo target un intervento di gruppo già a partire dal gruppo curante, che è un gruppo multiprofessionale: la parte psicologica è qui affiancata da altre competenze affinchè fosse possibile cogliere e trattare con punti di vista molteplici e quindi gruppali i diversi aspetti in gioco nella si-tuazione: il gruppo dei bambini si è focalizzato sul potenziamento delle abilità d’apprendimento ed è stato gestito da un educatore specializzato nel metodo Feuerstein mentre lo psicoterapeuta si è occupato di coordinare il progetto e di curare i collegamenti della rete per evitare una frammentazione del bambino tra i molti caregiver (insegnati, NPI, Assistenti sociali) e ha lavorato con il gruppo di genitori, come nodo strategico ed essenziale della rete. La scelta di costruire un gruppo di lavoro interprofessionale ha a che fare con l’utilità e la ricchezza di utilizzare punti di vista diversi e complementari, sguardi moltepli-ci, sguardi gruppali su una situazione di sofferenza di gruppo. Il presupposto è l’integrazione tra parti: come il gruppo fa ammalare cosi il gruppo può cu-rare. L’intervento si configura cosi come un intervento di gruppo e attraverso il gruppo.
La fase di realizzazione
Che tipo di utenza abbiamo trovato? abbiamo trovato bambini in difficoltà sul piano degli apprendimenti, ma poi anche dei comportamenti e a ampio raggio
con difficoltà emotive e psicologiche di varia natura; dietro abbiamo incontrato famiglie sofferenti e con risorse carenti su più livelli: socioeconomico, cultu-rale e psicologico.
La difficoltà del bambino corrisponde o risponde a una sofferenza del si-stema famigliare. Nell’età evolutiva un intervento circoscritto sul bambino ha un’incidenza limitata. Se riusciamo a ricomprendere il contesto famigliare ed effettuare una presa in carico che coinvolga entrambe il trattamento avrà più probabilità di essere efficace.
La trasmissione transgenerazionale della psicopatologia ha a che fare con traumi e lutti non elaborati in cui il figlio, come integrante del nucleo pato-logico centrale, concorre lui stesso a mantenere attraverso la sua formazio-ne patologica. Diventare genitori comporta la riattivazione dei temi affettivi che hanno dominato la propria infanzia e rimette in primo piano le proprie configurazioni genitoriali interne, riattivando conflitti finora rimasti silenti o sufficientemente compensati: l’assunzione degli aspetti danneggiati o difettosi della propria infanzia libera i figli da sofferenze non proprie.
Coinvolgere le famiglie non è un passaggio scontato ma richiede un lavoro specifico. Generalmente le famiglie come implicito tendono portare il bambino dallo specialista aspettandosi una cura, questo non è così strano perché deriva dalla generalizzazione del modello medico che funziona cosi: lo specialista ha la soluzione del problema e applica una cura. Per la clinica le cose non stanno proprio in questo modo, e se è molto utile che la famiglia sia parte del processo di cambiamento, bisogna tenere presente che non sono tenuti loro ad avere com-petenze psicologiche e quindi occorre spiegare e motivare, creare alleanza.
Abbiamo fatto per questo dei primi colloqui con tutti i genitori, spiegando la centralità educativa che i genitori hanno rispetto ai loro figli, valorizzando l’importanza del loro intervento e partecipazione, spiegando la circolarità del cambiamento o non cambiamento nei sistemi di gruppo e famigliari, compren-dendo i loro vissuti e difficoltà, segnalando la necessità della loro partecipazio-ne e collaborazione per il raggiungimento di risultati rispetto al problema. Ai genitori è stato spiegato che il miglioramento del bambino non era indipenden-te da loro, e che il cambiamento sarebbe stato potenziato significativamente dal loro contributo nel sostenere e agevolare lo sviluppo. Il gruppo dei genitori avrebbe avuto come obiettivo, ben circoscritto, quello di comprendere le dif-ficoltà dei figli per sviluppare nuovi strumenti ed essere presenti nel modo più utile per favorire il superamento dei problemi.
Setting del gruppo genitori
Il gruppo di genitori ha utilizzato una modalità gruppoanalitica, cioè si è con-figurato come un gruppo parola, non legato a contenuti o temi predefiniti, che si è svolto a partire da quello che i genitori hanno portato via via e in libera associazione partendo dai figli e dalle loro difficoltà.
Il lavoro ha riguardato l’analisi delle dinamiche inconsce e dei relativi con-flitti che, a partire dai propri modelli genitoriali, dalle proprie matrici fami-gliari inconsce, vengono giocati in modo disfunzionale nelle relazioni e nei vissuti del presente.
Obiettivi del gruppo
Aumentare l’insight e la comprensione dei vissuti e delle emozioni per aumentare la loro tolleranza: riconoscere le emozioni in gioco nelle situa-zioni, sentirle, stare con quelle, definirle, interrogarle
Sviluppo di una Mentalità psicologica e comprensione delle dinamiche genitoriali inconsce: aumentare la consapevolezza che esperienze, vissuti e ricordi del bambino contribuiscono in misura determinante a strutturare la personalità adulta e che quindi questa fase di sviluppo con relative esperien-ze è fondante la strutturazione della identità adulta futura. Allo stesso modo nei genitori la relazione con i propri genitori interni e le passate esperienze nell’infanzia contribuiscono a strutturare la loro personalità e il modello ge-nitoriale attuale. Questi nuclei inconsci orientano le relazioni con i loro figli dove spesso si ripetono configurazioni relazionali e si attivano proiezioni relative a propri nuclei conflittuali. (vederlo può rendere possibile prendere in considerazione dinamiche e ruoli diversi, più adatti alle situazioni contin-genti meno ripetitive di schemi passati)
Facilitare nei genitori l’utilizzo di una modalità riflessiva: la capacità di percepire, sentire, pensare, elaborare, contenere, capire, restituire sono ele-menti propri di una funzione genitoriale sufficientemente buona. Il bambino deve costruire queste competenze nel tempo e lo può fare inizialmente pren-dendo in prestito e poi facendo proprie le competenze dei genitori (la reverie di winnicot, funzione beta di Bion, la mentalizzazione di Fonegy). Queste, poi interiorizzate, costituiranno i meccanismi di elaborazione e funziona-mento della mente adulta.
Alcuni temi e processi nei Gruppi Genitori
Per provare a darvi un’idea più concreta rispetto a quello che succede e come funzionano questi tipi di gruppi ho provato a semplificare e sintetizzare l’espe-rienza narrativa nei gruppi a partire da alcuni temi ricorrenti:
Parliamo di loro e non di noi: inizialmente si parla dei bambini e questo rassicura e permette di prendere una distanza.
È un primo passaggio coprensibilmente difensivo, anche ben orientato rispetto agli obiettivi del gruppo e permette di stare senza esporsi subito in prima per-sona e di creare un primo livello di coesione: questi sono gruppi di genitori, quindi omogenei, con figli omogenei per età quindi con un buon fattore di coesione interna già nella loro matrice costitutiva. Questo, insieme alla durata limitata delle sedute, accelera il processo del gruppo.
Un primo fattore “terapeutico” riguarda quindi il ruolo supportivo e di so-stegno che si attiva nella condivisione di esperienze e delle difficoltà, che di-minuisce l’isolamento e la solitudine.
Nella comunicazione e descrizione delle situazioni si chiarificano inoltre alcuni aspetti e li si processa cognitivamente; i diversi rispecchiamenti e le risonanze nel gruppo alimentano la speranza e il senso di autoefficacia.
Bambini figurano spesso come alieni perchè non crescono come dovreb-bero: sono diversi dagli altri, altro da noi, incomprensibili, “cattivi” perché non rispondono ai compiti dell’età.
Guardare al bambino: proviamo a mettere a fuoco le difficoltà dei bam-bini alla luce della situazione complessiva (del bambino e della famiglia) e della loro natura e, allargando il campo, cerchiamo di aumentare la capacità di pensare. Se il bambino è incomprensibile o cattivo, disfunzionale etc… non c’è nulla da fare, se invece è in difficoltà e reagisce così a qualcosa che non funziona per lui allora è possibile immaginarsi un cambiamento. Tro-vare una causa del problema è primo movimento alla ricerca di sollievo, per meglio assistere e sostenere poi lo sviluppo dei figli in età di latenza. I bambini non sono cattivi, stupidi etc… sono in difficoltà; perché? Cosa li mette in difficoltà?
Rintracciare una somiglianza (io ero come lui, il padre, lo zio) rende il pro-blema meno alieno e preoccupante, lo ricolloca in una cornice famigliare (una domanda sempre utilizzata: come eravate voi alla sua età?) così si eviden-zia il processo d’identificazione o d’estraneità. L’identificazione come primo
elemento del legame affettivo restaura il legame: trovare la somiglianza e la differenza nella natura del figlio aiuta a collegare, e differenziare, inserire il bambino nella storia famigliare e riconoscerlo come unico e originale.
Io ero come lui permette di guardare le proprie matrici famigliari e interne: raccontarle, ritornare consapevole degli aspetti che si giocano da là ad ora nella personalità e nelle relazioni, nei vissuti e nelle emozioni, nelle ripetizioni e nei conflitti (situazione del papà di K.)
Narrazione e comprensione, consapevolezza dei vissuti passati e delle emo-zioni attuali aumentano regolazione e riflessività.
Psicoeducazione: la natura edonistica e autocentrata del bambino per na-tura è da educare e regolare progressivamente, accettando il bambino per com’è, nelle sue specificità, vedendolo, conoscendolo al di là di a priori ide-ali. Tra i bisogni psicologici fondamentali ci sono sicurezza e amore, un’at-tenzione ai ritmi e al clima famigliare, con un occhio attento a cogliere le parti sane e le risorse.
In conclusione quest’esperienza riguarda gruppi per così dire spuri: come obiettivo generale si è inteso allestire uno spazio che potesse essere contenito-re dell’ansia e dei vissuti angoscianti, per trasformare l’allarme e l’urgenza in preoccupazione e capacità d’ascolto.
Nel gruppo molti genitori hanno fatto una prima esperienza di lettura psico-dinamica, con una prima comprensione alle dinamiche non consapevoli e dei loro effetti nelle situazioni relazionali e famigliari attuali, con una maggiore mentalizzazione dei diversi bisogni in gioco e i punti di vista differenti (mo-delli genitoriali, posizione genitori figli, etc..).
Si è inteso favorire il viraggio dall’impotenza e senso di inadeguatezza ver-so l’assunzione di responsabilità possibili: ampliare la possibilità di lettura ha in parte modificato il campo delle possibilità ampliando la disponibilità d’in-terventi/soluzioni di fronte ai problemi.
Il format si differenzia dalla finalità dei gruppi psicoterapeutici in senso stretto perché non prevede una ristrutturazione profonda della personalità e non parte da una motivazione alla psicoterapia, ma può presentare fattori ed effetti terapeutici. Si configurano come gruppi con una una modalità psicodi-namica di funzionamento e conduzione. Rispetto ai primi diversi per caratte-ristiche e finalità, ma utili e adatti al contesto sociale attuale.
Alice Mulasso
Psicologa psicoterpeuta gruppoanalista, Presidente APRAGI e membro asso- ciato della GAS (Group Analytic Society, Londra), Socia fondatrice cooperativa Arcipelago.
Questo mio breve contributo ha come obiettivo quello di offrire una cornice storica e teorica all’interno della quale poter collocare e comprendere lo svi-luppo del LG a conduzione gruppo analitica.
Uno degli aspetti fondamentali dell’amministrazione dinamica (quell’insie-me di requisiti e comportamenti mentali e relazionali che il conduttore e /o convenor è chiamato a mettere in campo per allestire e gestire un gruppo) di un gruppo allargato è la gestione dei confini, volta a creare un clima di sufficiente sicurezza nei partecipanti. Anche qui ho dovuto fare una scelta di confini: i gruppi allargati non nascono con la gruppo analisi, sono formazioni sociali e come tale esistono da sempre in diverse forme, assetti, con scopi differenti, in letteratura (Hopper) si differenzia tra formazioni sociali quali la masse, la folle, le organizzazioni, le istituzioni, i comizi politici, le manifesta-zioni, e il grande gruppo come esperienza appositamente creata e convocata con scopi didattici, formativi, esperienziali; è a questa accezione di LG che qui si fa riferimento. La storia è pertanto la storia del LG gruppo analitico la cui idea embrionale – e forse anche qualcosa di più – era presente nell’esperimento di Northfiled in quanto significativamente influenzato dalla teoria del campo (di Kurt Lewin) e dalla crescente consapevolezza dell’impatto della dimensio-ne sociale sul malessere e sul benessere degli individui.
Vorrei quindi fare un viaggio con voi a ritroso nel tempo, nella culla della gruppoanalisi: l’Ospedale Militare di Northfield.
NORTHFIELD – BRIMINGHAM: Regno Unito, seconda guerra mondia-le, un’epoca storica dilaniata da due conflitti mondiali che hanno lacerato e distrutto il tessuto sociale, le reti e i gruppi, un’epoca in cui le appartenenze sono state messe a dura prova o sono diventate fonte di persecuzione, proprio questo contesto ha costituito il terreno per lo sviluppo della prassi e della teoria
sul trattamento di gruppo. La gruppoanalisi, ad opera di Foulkes, vede i suoi albori in tempo di guerra. Gruppi che danneggiano gruppi che curano, ci-tando non solo la teoria, ma le parole di un giovane paziente dopo alcuni anni di terapia di gruppo (2016), riflettendo su come problemi e sofferenze suoi e dei suoi compagni di avventura avessero le radici nel gruppo primario, la fa-miglia e, spesso, anche in gruppi importanti nella vita dell’individuo – gruppo classe, lavoro, amici,…- e su come attraverso piccolo gruppo di psicoterapia la sofferenza psichica ed emotiva venisse compresa e curata.
A Northfield, 5 km da Birmingham, l’ospedale civile per disturbi mentali fu adibito ad ospedale militare per i soldati che avevano sviluppato un distur-bo post-traumatico o nevrosi da guerra; soldati che dapprima arrivavano da postazioni in Inghilterra, in seguito arrivarono anche dal fronte. L’obiettivo della cura e della riabilitazione non consisteva necessariamente nel reinseri-mento nell’esercito, ma anche nel ritorno alla comunità di appartenenza come persone capaci di partecipare nuovamente al mondo del lavoro e degli affetti.
Qui ebbe luogo il cosiddetto esperimento di Northfiled [Il testo più completo sul cosiddetto “ESPERIMENTO DI NORTHFIELD” è quello di Tom Harrison: “Bion, Rickman, Foulkes and the Northfield Experiments”, opera edita nella col- lana Therapuetic Communities della Jessica Kingsley Publishers.] che ispirò lo svilup-po delle TC (Therapeutic Communities) nel Regno Unito, un nuovo modo di fare psichiatria grazie al riconoscimento dell’impatto della dimensione sociale sulla psichiatria. L’Esperimento di Northfield riguardò solo una piccola parte del grande ospedale militare di Hollymoore, i suoi protagonisti diretti furono inizialmente Bion e Rickmann – primo esperimento di Northfield – . Viene riportato che essi non tenevano in considerazione l’apparato amministrativo militare dell’ospedale (NON GUARDAVANO ALL’OSPEDALE COME A UN LG NELLA SUA COMPLESSITÀ E TOTALITÀ) per cui il personale, gli altri psichiatri, gli amministratori non capivano che cosa accadeva e aveva-no la sensazione che stessero portando avanti dei loro interessi. Viene riferito (cit. Tom Harrison) una sorta di sollievo quando, dopo solo sei mesi, se ne sono andati. L’obiettivo principale dell’esperimento erano il clima del reparto e lo studio delle sue tensioni interne in una situazione di vita reale cercando di mettere in evidenza il ruolo del comportamento neurotico nel produrre frustra-zione, spreco di energie e infelicità nel gruppo.
In un secondo tempo, Tom Main, Bridger, Foulkes – che arrivò a Northfield nel 1943 e vi rimase fino alla fine della II guerra mondiale – furono i protagonisti del secondo Esperimento di N.
L’ esperimento di Northfield racchiude elementi germinali per il futuro svi-luppo dei gruppi allargati: l’approccio all’ “ospedale- come un tutto”, di Brid-ger, Foulkes e Main promuoveva lo sviluppo di una comunità terapeutica in cui pazienti, personale medico ed ausiliario, l’amministrazione erano conside-rati protagonisti partecipanti, e dove si promuoveva la collaborazione tra l’ala deputata al trattamento e quella occupazionale. Questo è ben illustrato dalle parole dello stesso Tom Main: l’esperimento di Northfield
“è stato concepito come un setting terapeutico la cui organizzazione non era medicalizzata ma era piuttosto strutturata in modo spontaneo ed emoti-vo, e che contava con il coinvolgimento dello staff e dei pazienti… La vita quotidiana della comunità deve essere connessa a compiti reali, veramente rilevanti per i bisogni e le aspirazione della piccola società rappresentata dall’ospedale, e della più vasto contesto sociale di cui l’ospedale è parte; non devono sorgere barriere tra l’ospedale e il resto della società; deve esserci la possibilità di identificare e analizzare le barriere interpersonali che ostacol-ano la piena partecipazione alla vita della comunità.”
In cosa consistette l’esperimento di Northfield? Cito le parole di Hargreaves in una lettera che scrisse a Foulkes nel 1945. Hargreaves, parte dello staff della Clinica Tavistock, lavorò durante la guerra nella Direzione della Psichiatria nel War Office (dipartimento del governo del Regno Unito responsabile per l’amministrazione delle forze Armate dal 1700 fino al 1963) . È l’uomo di po-tere dietro le quinte, colui che era a conoscenza del e sosteneva il nuovo modo di fare psichiatria che si stava sviluppando a N. e che influenzò la sperimenta-zione attraverso la teoria del campo di K. Lewin.
“L’Esperimento di Northfield nella mia mente non si limita alla pratica della psicoterapia di gruppo; si tratta dell’integrazione fondamentale della psico-terapia di gruppo con un tentativo di strutturare il campo dell’ospedale in modo terapeutico e propositivo. Il Suo (di Foulkes) lavoro nel campo della psicoterapia di gruppo è chiaro che non deriva dai concetti di Bion…. Ma il
modello totale dell’Esperimento di Northfield come l’ho sintetizzato sopra, è parte di una lunga catena di sviluppi nell’esercito che vede la sua origine nel lavoro sperimentale di Bion con i gruppi senza leader” (Hargreaves 1945, lettera a Foulkes).
Questo rappresenta infatti un cambiamento di paradigma rispetto alla relazio-ne fra pazienti e curanti e da una psichiatria individualistica ad una psichiatria comunitaria e sociale.
Thomas Main sottolinea il passaggio importante rispetto ai pazienti da es-sere trattati come bambini viziati da parte degli psichiatri a diventare parte-cipanti attivi nel creare l’ambiente in cui vivevano. Rickman ha sottolineato il senso di appartenenza che tutto ciò comporta e sviluppa – es i soldati si ri-ferivano al reparto come “il nostro reparto”. Bridger diceva che gli individui possono sviluppare un senso di soddisfazione nella comunità e di libertà solo in una società che riconosce il loro valore e da loro la possibilità di svilupparsi in uno spirito di calde relazioni umane. Quindi si diede anche la possibilità ai soldati di realizzare attività che erano loro stessi a proporre invece di inserirli in attività pensate per loro o di allenarli in abilità particolari. Affinché ciò fosse possibile lo staff doveva essere aperto alla comprensione dei processi in misura uguale. Sono state create le prime équipe multidisciplinari della storia della psichiatria britannica un modello che fu fatto proprio dalle Comunità Terapeutiche.
L’approccio di Foulkes fu parallelo a quello di Rickman; per il secondo ogni individuo è in relazione al gruppo come un tutto; per Foulkes ogni individuo è in relazione con ogni altro individuo. Foulkes insieme ai suoi collaboratori, si adoperò nel trasformare alcune unità dell’ospedale in comunità terapeutica su-perando la compartimentalizzazione dei reparti. I reparti dedicati alla cura e quelli dedicati alla terapia occupazionale vennero messi in connessione con un impatto di attivazione. L’interesse di Foulkes a connettere i reparti è analogo al suo interesse a connettere gli individui nel gruppo terapeutico
I soldati–pazienti smisero di essere passivizzati e infantilizzati per diventare protagonisti del trattamento attraverso la partecipazione attiva e il confronto fra pari e con i medici nei gruppi di parola:
“I pazienti erano partecipanti attivi, responsabili, della propria ‘guarigione’, e venne loro offerta la maggiore libertà di scelta possibile riguardo a ciò che desideravano fare, e su come volevano passare il loro tempo nell’ospedale.” (Foulkes, p. 22, 1975).
Venne introdotta la psicoterapia di gruppo, si formarono gruppi di pazienti e gruppi di operatori, una novità per l’epoca. Foulkes non giunse, in questo contesto, ad allestire gruppi allargati con personale e pazienti dei vari reparti, fu piuttosto lui a svolgere il ruolo di figura di connessione tra di essi (Il large Group nella mente). Ascoltando le parole di Foulkes:
“A poco a poco, l’intero ospedale divenne un corpo coerente, ma non ‘orga-nizzato’, una comunità nel senso che c’era un libero flusso di comunicazione
tra i pazienti, tra i membri del personale e tra i pazienti e il personale. Certo, ‘libero’ in proporzione alle diverse occasioni di contatto e collaborazione. Riunioni di corsia, serate sociali, attività di gruppo e trattamento più specif-ico di gruppo o psicoterapia individuale, riunioni del personale, conferen-ze mediche, ecc. – tutto venne visto come parte di un processo coerente.” (Foulkes, p. 21, 1975)
Da dove nasceva questo approccio? Da una visione dell’essere umano come sociale, come un punto nodale in una rete di relazioni e comunicazioni che si va sviluppando, la MATRICE, connesso con altri punti nodali/individui. Nello sviluppo di tale concezione dell’essere umano e della mente è stato decisivo il rapporto professionale e amicale di Foulkes con il sociologo Norbert Elias e con il neurobiologo Kurt Goldstein. Il primo concepiva l’essere umano come sociale, il secondo riteneva che il sistema nervoso può essere meglio compre-so nella teoria e nella pratica non come una somma complessa di neuroni individuali, bensì al contrario come un insieme che reagisce costantemente.Egli definì ciò una rete e chiamò punto nodale la singola cellula nervosa. Per questa ragione
“ho chiamato ‘rete’ il sistema totale di persone che vanno raggruppate in-sieme rispetto alla loro relazione, e gli individui che compongono la rete corrispondono a punti nodali”. (Foulkes, p.26, 1975).
Ne deriva che anche la visione della sofferenza e del disturbo di cui l’individuo è portatore si amplia passando da un livello di lettura centrato sull’individuo a un livello centrato sul gruppo di appartenenza:
“Il termine rete è stato usato per esprimere il fatto che il nostro paziente indi-viduale è, in essenza, semplicemente il sintomo di un disturbo nell’equilibrio della rete intima di cui fa parte” (Foulkes, p. 26, 1975).
La rete è rete di relazioni, comunicazioni, pensiero, affetti, processi e dinamiche; Foulkes vi si riferisce utilizzando il termine MATRICE, concetto che etimolo-gicamente (grembo, utero) rimanda alla POTENZIALITA’ GENERATRICE. Il concetto di MATRICE, descritta in letteratura come un processo, si collega e ci connette con quello di mente: in un articolo di Foulkes ritrovato e pubbli-cato postumo da Pines sul Group Analytic Journal e intitolato Mind, Foulkes sviluppa ulteriormente la concezione della mente come gruppale, cioè non come entità individuale di proprietà dell’individuo, ma come “ una serie di processi che interagiscono e avvengono all’interno di un insieme di persone intimamente collegate, comunemente definito “gruppo”. (Foulkes, 2003).
Possiamo quindi constatare come, fin dai suoi albori, la gruppoanalisi, pur affermandosi inizialmente come metodo e tecnica di cura dell’individuo attra-verso il piccolo gruppo ( 8/9 membri), presenta elementi germinali (comunità che cura, rete di relazioni, mente gruppale, il sociale permea l’essere umano, individuo sofferente come sintomatico del funzionamento della sua rete di ap – partenenza) per lo sviluppo e l’applicazione nei contesti sociali e comunitari.
Nel piccolo gruppo di psicoterapia il contesto sociale coincide con la fami-glia: la matrice dinamica riverbera il funzionamento del gruppo familiare dei pazienti permettendo l’esplorazione, attraverso la riattualizzazione nel qui ed ora ed il clima di intimizzazione, delle culture, relazioni, mandati, conflitti, traumi, ruoli familiari. Nel grande gruppo si esce dalla dimensione famiglio-centrica per esplorare i processi sociali e culturali. È possibile esplorare i miti sociali e cominciare a costruire un ponte per colmare la distanza fra noi e il mondo sociale. Nel gruppo allargato il contesto socio -culturale diventa centra-le e, attraverso il DIALOGO, è possibile esplorarlo e diventarne consapevoli.
Dagli anni ’50 si sviluppa un sempre maggior interesse nei confornti dei gruppi allargati che vengono inseriti nei congressi internazionali e negli istituti di training.
1975: primo libro sul gruppo allargato; Kreeger, L., “Il Gruppo allargato”, Armando Editore, 1978.
2003: seconda pubblicazione sul tema: Weinberg, H., Schneider, S., “ The Large Group Revisited. The Herd, Primal Horde, Crowds and Masses”, JKP, 2003
L’esperienza del grande gruppo
Addentriamoci ora più a fondo nella conoscenza di questa entità definita “grande gruppo” per comprendere quali sue caratteristiche lo rendono un di-spositivo adatto al lavoro nella comunità.
La definizione di grande gruppo non prevede un numero standard di parte-cipanti, ma variabile dalle 20 persone a parecchie centinaia. A mano a mano che i numeri aumentano cambia anche il livello dell’esperienza. Entro certi numeri rimane possibile sedere in disposizione circolare e guardarsi in faccia, superando le 30/40 persone ci si siede in cerchi concentrici. Con l’aumentare del numero di partecipanti è la società più ampia ad essere rappresentata, il dialogo può risultare più difficile, le emozioni sono amplificate, possono so-praggiungere il blocco del pensiero e ansia, non si può sempre sapere chi stia
parlando, sentire e ascoltare diventa arduo – non solo per problematiche di acu-stica dell’ambiente -, ci si può sentire immensamente soli in mezzo ad una folla di persone, si può rimanere in silenzio per paura di esporsi e del conseguente giudizio altrui; si occupano posti diversi, proprio come nella vita: chi si siede al centro, nella polis, chi sceglie la periferia, la banlieu, marginalizzandosi, mimetizzandosi, assumendo il ruolo di spettatore o di “extraparlamentare”. È interessante quando ci sono più sessioni consecutive di gruppo osservare come i partecipanti cambino posizione, chi si avvicina al centro e chi si sposta verso la periferia; le difficoltà acustiche e l’impossibilità di vedere tutti e guardarsi negli occhi possono sollecitare paranoia, insicurezza, sensazione di pericolo.
La mia esperienza personale è che con l’aumentare dei numeri e il molti-plicarsi esponenziale delle relazioni possibili, la qualità della comunicazio-ne cambia, il dialogo diventa più difficile, vengono espresse delle opinioni, a volte degli slogan, altre volte ci sono dei monologhi. Per quanto mi riguarda trovo più difficile intervenire quando i numeri sono molto grandi, avverto più fortemente un blocco del pensiero e dello stomaco. Ma non è possibile gene-ralizzare la propria esperienza personale, vi sono persone che riferiscono di sentirsi più a proprio agio in un grande gruppo che in un gruppo di dimensioni ridotte. Inoltre con l’aumentare dei numeri il contenitore gruppo presenta più facilmente delle perdite, diventa un “leaking container” (H. Weinberg) in cui i partecipanti si alzano, cambiano posto, escono ed entrano. Come in una gran-de piazza, come nella polis.
Il grande gruppo è rappresentativo del territorio e della comunità, il territorio è fatto di grandi gruppi: istituzioni, organizzazioni, gruppi ricreativi, associazioni e le persone hanno appartenenze multiple. Ogni membro di un grande gruppo porta con sé nella matrice gruppale le proprie appartenenze, il proprio sistema di credenze e valori, l’essere cittadino di una determinata comunità costellata da conflittualità, tensioni, problematiche, risorse, storia, traumi, ecc. A questo proposito Pat de Marè, sostiene che:
“… i grandi gruppi favoriscono lo sviluppo della consapevolezza socio- cul-turale. La cittadinanza è osservabile adeguatamente solo in un setting più grande.” (P. De Marè, 1988)
Spero di aver reso l’idea della fatica che comporta l’esperienza di essere parte di un grande gruppo, si tratta di un processo che passa attraverso sentimenti di intensa frustrazione, disagio, intolleranza, rabbia fino ad arrivare all’odio in una situazione inizialmente frustrante. Si fa esperienza del e si esplora il
proto-mentale, solo col tempo i sentimenti avversi possono essere trasformati in energia endopsichica messa al servizio del dialogo.
Il dialogo non è scontato, è come un linguaggio che va appreso e, citando
De Marè:
“L’unico scopo del gruppo più grande è quello di permettere alle persone di imparare come parlare l’una con l’altra, di imparare a dialogare.” (1988, p.41)
Il dialogo è uno scambio che permette la nascita del pensiero – uno dei compiti di un grande gruppo è quello di apprendere a pensare – attraverso il dialogo si esplorano i miti culturali, gli stereotipi, il punto di vista dell’altro, i ruoli, la leadership, i pregiudizi, i luoghi comuni, i conflitti, “tutto quello, insomma, che incide sulla relazione fra l’individuo e il contesto sociale di ap-partenenza” (A.M.Traveni), attivando un processo di trasformazione culturale. Le caratteristiche del dialogo sono la circolarità, la lateralizzazione, l’essere articolato ed analogico. Il dialogo nel grande gruppo ha un enorme potenziale di pensiero: attraverso il confronto, l’esperienza dell’altro e degli altri, l’incon-tro tra l’intrapsichico di cui ogni partecipante è portatore e il sociale di cui il gruppo allargato è rappresentazione, diventa possibile generare pensieri nuovi, nuovi per quella realtà, per quel dato contesto. Attraverso il dialogo
“sorgono le idee per trasformare l’insensatezza e la massificazione che ac-compagna l’oppressione sociale, sostituendole con livelli più ampi di sensi-bilità culturale, intelligenza e umanità” (De Maré p.42).
Nella mia esperienza di gruppi allargati – partecipo regolarmente a gruppi allargati internazionali che vanno dalle 20 a centinaia di persone, a seconda delle situazioni e dei contesti – ciò che mi sorprende sempre è la potenzialità del processo di gruppo di umanizzare i rapporti, l’altro, il gruppo stesso, la società, io che partecipo.
Mi preme sottolineare come non si tratti di un processo lineare, quanto piuttosto di oscillazioni nell’arco dello sviluppo della matrice gruppale, per cui parti più distruttive del processo di gruppo possono affiorare in qualsia-si momento, nessun equilibrio è raggiunto e dato una volta per sempre. Il/i conduttore/i, convenor in termine tecnico, cioè colui/colei che convoca la comunità a radunarsi, ha la responsabilità di riconoscere l’affiorare dell’anti-gruppo, cioè delle forze distruttive che qualsiasi gruppo presenta, di palesarle, di cercare di comprenderle ed elaborarle, in modo che possano essere messe al servizio dello sviluppo del gruppo. Forze distruttive e conflittuali che riverbe
rano il conflitto sociale, le tensioni nella comunità, quale che sia la loro natura – economica, politica, culturale.
Un altro aspetto importante nel processo dei gruppi allargati è la possibilità di riorganizzare le informazioni mnestiche, la conoscenza, collettivamen-te –intrapsichico e sociale in dialogo – in una funzione creativa e mitopoietica che “immagina nell’hic et nunc, attraverso la memoria del tempo, un futuro aperto” (AM Traveni). Nel gruppo allargato si aprono visioni sul futuro, il futuro come categoria temporale pensabile collettivamente e verso la quale ci si approccia con senso di responsabilità.
Nel corso degli anni l’attenzione, la curiosità di molti colleghi (Malcom Pines, Pat de Maré, Lionel Kreeger, Hopper, Teresa von Sommaruga, Carla Penna, Marina Mojovic, Anna Maria Traveni, Robi Friedman, Rocco Pisani, Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo, solo per menzionarne alcuni) si rivolge alla sperimentazione, alla ricerca e alla applicazione dei gruppi di dimensioni più ampie ai contesti sociali e comunitari. Gruppi in cui ci si forma al dialogo, alla comunicazione come cittadini, in cui è possibile esplorare la cultura di appartenenza, i fenomeni sociali che impattano sulle nostre vite, gli stereotipi che imbrigliano il pensiero, in cui è possibile pensare insieme dal vertice della cittadinanza.
Bibiografia
De Maré P., Thompson S., Piper R., Koinonia, Dall’odio, attraverso il dialogo, alla cultura nel grande gruppo, Edizioni Universitarie Romane, 1991
Foulkes, S.H., (1977) Psicoterapia Gruppoanalitica. Metodi e Principi. Astrolabio,
Foulkes, S.H., (2003) Mind, Group Analysis, 2003, Vol. 36 (3); 315-321. Nitzun, M. (1996) The anti-group. Destructive Forces in the Group and Their
Creative Potential Routledge Mental Health Classic Editions
Traveni, AM. Intervista rilasciata dalla Dottoressa Anna Maria Traveni al Dot-tor De Michele Antonio per la sua tesi di laurea in Psicologia Clinica e di Comunità dal titolo “Il lavoro psicodinamico nel Large Group. Esperienze formative e nuovi percorsi terapeutici.”
Adriana Corti
Psicologa, psicoterapeuta gruppoanalista, socia APRAGI, già direttore della sede di Torino, Scuola COIRAG.
QUANDO NASCE, COME NASCE, PERCHÉ NASCE, CON QUALI FINALITÀ
I primi passi di questa esperienza si sono sviluppati nell’ambito della scuola di formazione A.P.R.A.G.I. di Torino già nel 1987, l’esperienza è poi continuata, con struttura e metodo via via “perfezionati” negli anni ’90 e 2000. Elemento propulsivo fu l’iniziativa di Anna Maria Traveni di confrontarsi, con cadenza mensile, con un gruppo di colleghi, sui possibili nuovi sviluppi della gruppo-analisi in relazione ai cambiamenti che verificavamo nei disturbi dei pazienti e le concomitanti trasformazioni che stavano avvenendo nel macrosociale. Da questo inizio si è strutturata progressivamente una metodologia che è stata applicata nel corso degli anni sia in ambito istituzionale, sia nel più ampio terreno della polis.
In sintesi la riflessione e interrogazione reciproca tra colleghi in merito alle rispettive esperienze cliniche si incentravano su alcuni temi cruciali: quanto interferisce con l’assetto intrapsichico del soggetto e sull’insorgenza e manife-stazione di nuove forme di disagio psichico la pressione sempre crescente degli eventi socio-politici che caratterizzano la nostra post-modernità?
Per citare soltanto i più “macro” tra questi eventi: la caduta del muro di Ber-lino, il venir meno degli assetti internazionali con la balance of power delle due grandi potenze che avevano garantito l’equilibrio del terrore, la percezione del dominio unico di solo “impero”, la comparsa del terrorismo internazionale, le guerre locali che però coinvolgono in ampia misura i “pacifici” stati dell’Eu-ropa occidentale, i massicci fenomeni di migrazione e quindi di incontro\scon-tro tra visioni del mondo, della vita, dell’individuo assolutamente eterogenee.
Nella relazione duale e in piccolo gruppo, nonostante le possibilità di ampli-ficazione dei temi portati e il setting “mentale” di noi gruppoanalisti (che tiene in debito conto l’analisi delle gruppalità interne delle persone che a noi si ri
volgono), certi temi, miti, sogni, paure, sintomi che afferiscono al contesto so-ciale possono trovare l’opportunità di esser trattati riferendoli, esclusivamente o comunque principalmente, alla storia personale e familiare o ai processi di transfert? O forse occorre tenere in maggior conto l’influsso che sull’intrap-sichico hanno gli accadimenti spesso traumatici del contesto sociale? Come la complessità individuale nei suoi vari aspetti emotivi, cognitivi, comporta-mentali consci e\o inconsci interagisce con la massiccia presenza del sociale, cui non è possibile sottrarsi per l’addensamento e la dilatazione dell’universo culturale e comunicativo in cui tutti siamo immersi?
Da qui nasce il progetto di assumere il contesto socio-culturale come og-getto di analisi e il gruppo ampio come luogo di elaborazione, con lo scopo di trovare strumenti condivisi per misurarsi con la frustrazione causata dalla dif-ficoltà di far fronte alla considerevole influenza che il macrosociale esercita su di noi, da cui spesso ci difendiamo ricorrendo all’uso massiccio di meccanismi difensivi basati essenzialmente sulla negazione.
STRUTTURA DEL LARGE GROUP ATTRAVERSO IL SOGNO
Nella nostra proposta il LG è organizzato con cadenza semestrale, le sessioni di lavoro sono sette, ciascuna della durata di novanta minuti, separate l’una dall’altra da trenta minuti d’intervallo. L’organizzazione in sette sedute di un’o-ra e mezza l’una, concentrate in due giorni consecutivi, con l’intervallo della notte, che favorisce la possibilità di amplificazione attraverso sogni, pensieri ecc.., e la ripetizione semestrale dell’esperienza, mirano a costruire un conte-nitore sufficientemente stabile ed insieme dinamico, che permetta ai processi intrapsichici ed intragruppali di svilupparsi. Il setting prevede la disposizione di partecipanti e staff di conduzione (4 conduttori ed un osservatore parteci-pante) in un unico cerchio di sedie, più una sedia vuota. Questa configurazione garantisce a tutti i partecipanti la possibilità di vedersi, ascoltarsi e rende più facile e paritario l’accesso alla parola. Nello stesso tempo è anche una dispo-sizione che rende difficoltoso il sottrarsi alla partecipazione al discorso del gruppo. Sedere tutti in un unico cerchio riconosce la reciproca opportunità della libertà comunicativa, riducendo le difficoltà legate al ruolo o al potere.
Lo staff di conduzione si presenta al gruppo nel momento che precede l’inizio dell’esperienza indicando anche le coordinate di “cornice” e di setting esterno cui tutto il gruppo è chiamato ad attenersi: rispetto degli orari, discussione libera (free floating discussion), con astensione dal giudizio, mantenimento del segreto
professionale, invito a riportare dentro al gruppo ciò che accade fuori. Il ruolo dei conduttori, in questo contesto, è quello di porre l’accento sull’ascolto reci-proco delle diverse posizioni, sull’importanza della parola di tutti, sulle finalità non terapeutiche del LG né sul versante individuale, né su quello gruppale. Loscopo del LG è mettere in questione la realizzabilità di legami intersoggettivi e sociali fondati sulla fiducia, verificando la possibilità di parlarsi e comprendersi nonostante le appartenenze diverse (personali, culturali, geografiche o professio-nali). Lo strumento sono le libere associazioni, facilitatori per trovare connes-sioni, spesso inconsce, attraverso cui si può diventare disponibili ad un pensiero non precostituito ed istituzionalizzato, ma libero, flessibile e generativo. Date queste finalità la partecipazione non è subordinata, come per es. in congressi o situazioni formative, ad una specifica ed unica appartenenza professionale, ma aperta a chiunque desideri fare questo tipo di esperienza.
L’INPUT INIZIALE
L’utilizzo di un input iniziale è stato molto pensato e discusso. La sua introduzio-ne fu anche molto criticata perché non prevista nei LG generalmente utilizzati in ambiente psicoanalitico. L’obiezione è che un input iniziale “indirizza” il grup-po, gli dà una cornice precostituita, impedisce quella regressione, perdita di con-fini individuali, senso di annullamento, rabbia indistinta, impossibilità di parlare ecc.. che sembrano specifici ed ineludibili in una esperienza di LG. Nel nostro modo di procedere, confermato dall’esperienza, l’input iniziale non cancella le caratteristiche sopraddette, che sempre si verificano in LG. Tuttavia, nella me-todologia da noi elaborata, si è pensato che l’offerta di un oggetto simbolico, peculiare per quel gruppo, favorisca la creazione precoce di una specifica ma-trice dinamica, come nucleo da cui si genera la caratteristica propria del gruppo medesimo ed il processo che ne potrà seguire, contenendo, senza annullarla, la distruttività. Importante è che lo stimolo sia analogico ed universale, che possa porre ogni membro più chiaramente a contatto con gli aspetti primitivi dello sviluppo della personalità individuale e contemporaneamente con le forze più arcaiche da cui sono germinate (e da cui continuamente emergono, regrediscono e nuovamente si ristrutturano) la società e la cultura collettive. Nelle primissime esperienze furono utilizzati racconti e poesie, poi si passò a un sogno scelto dallo staff. Nelle continue rielaborazioni che lo staff faceva per ideare i LG successivi venne progressivamente a delinearsi che, per conseguire quello scopo, il mezzo migliore fosse il sogno anonimo di un membro del gruppo, uno solo, estratto a
medesima. Questa re-immersione nel mondo onirico di ogni partecipante diven-ta fonte utile per attivare immagini personali, che contemporaneamente rispec-chiano la particolare situazione simil onirica ed inconscia del gruppo nascente.
Il sogno non è interpretato dai conduttori, proprio per non chiudere, “sa-turare” l’apertura alle libere associazioni che esso fornisce. In questo modo chi ascolta considererà allora il sogno “come se fosse suo” e lo legherà alla propria esperienza. Questi legami associativi di solito producono risonanze e fanno emergere materiale significativo, più accuratamente di quanto ne possa produrre una saggia interpretazione.
È come se il sogno di partenza fornisse la base da cui poi si crea una struttu-ra multidimensionale. È un grumo di materiale primordiale, condensato, tutto in fieri, che vedrà, nello svolgersi nelle diverse e successive sessioni, una sua evoluzione e declinazione. Ecco un esempio
ESPERIENZE: IL SOGNO INIZIALE E LE SUE PREFIGURAZIONI Il Sogno:
«Si tratta di un posto strano, un edificio sconosciuto e io lo sto visitando; finisco in una sala buia con un tavolo e un trono, con lo schienale di vellu-to. Continuo a camminare e al ritorno incontro delle persone dell’associ-azione sedute. Mi siedo e scopro che si tratta di comode, sedie per orinare con schienali regali. Nessuno sembra sorpreso. Siamo seduti su orinali con schienale regali, di velluto.»
Quello che è riportato si riferisce ad una particolare esperienza di LG attraver-so il sogno. Si tratta di una situazione formativa richiesta da una organizzazio-ne professionale di livello europeo che attraversava momenti di lacerazione e conflitto profonde. Quindi siamo fuori dalla realizzazione dei LG semestrali regolari. È qui riportata soltanto perché impressionantemente autoevidente di come un sogno estratto “a caso” indichi e simboleggi lo stato psichico del gruppo non solo nel qui e ora del gruppo nascente, ma nel là e allora della situazione “sociale” ed istituzionale.
LE PREFIGURAZIONI DI QUESTO SOGNO
Il sogno estratto “a caso” sintetizza in immagini potenti la storia, la situazione attuale e le criticità ad affrontare il futuro, senza il padre-sovrano. Non è il caso qui di seguire lo sviluppo di quel processo di LG che fu molto generativo per quell’associazione e la portò a riconoscere e dare legittimazione ad una nuova gestione più democratica e condivisa. Quello che vorrei mettere in que-stione è: in assenza di quel sogno il gruppo sarebbe riuscito in sette matrici a giungere ad un così profondo livello di consapevolezza della complessità dei propri conflitti? Sarebbe riuscito in così poco tempo a riflettere, mettere in parola ciò che divideva e rendeva difficile cooperare? Si sarebbe potuto andare oltre la manifestazione di rabbia indistinta e di rigidità delle posizioni dei sot-togruppi, per procedere verso una più matura condivisione di potere? Non c’è risposta, ovviamente. Tuttavia a noi sembra che anche in questo caso l’input iniziale abbia aiutato in modo potente il lavoro del LG.
METODOLOGIA: IL SETTING
Circa le regole del setting esterno si è già detto. Solo due parole sulla sedia vuota nel cerchio dei partecipanti.
Questa specificità del nostro setting vuole rendere visibile il “segno” del vuoto come simbolo della mancanza. Ad ogni esperienza, infatti, nel disporre in cerchio le sedie, si pone estrema attenzione a che una sedia ecceda sempre rispetto al numero delle persone previste. La sedia in più diventa quasi l’og-getto transizionale del gruppo che compensa la frustrazione sia della propria costrizione corporea connessa alla durata dell’esperienza (desiderio di non es-serci, di lasciare appunto la propria sedia vuota), sia dell’impossibilità di essere sempre soddisfatto nel proprio bisogno (di attenzione, comprensione, presenza dominante, ecc..) nel e dal gruppo. Inoltre la sedia in più diventa nel gruppo anche il simbolo dell’esistenza di nuove possibilità, spesso ancora miscono-sciute, è segnale della fecondità intrinseca del gruppo e del pensiero, è la porta verso aperture ad altri mondi (intimi ed esteriori).
Comunque, al di là dei nostri intenti metodologici e a conferma del suo potenziale di “apertura” la sedia vuota è durante i gruppi oggetto delle più diverse interpretazioni, proiezioni e rispecchiamenti, che diventano materiale di lavoro per il gruppo.
Per setting “interno” noi intendiamo l’orientamento mentale, interiore dei conduttori che è posizionato in modo da focalizzarsi, nello scambio che avvie-ne durante il processo gruppale, prevalentemente sul manifestarsi dei legami sociali, piuttosto che seguire l’emergere di connessioni familiari, o esigenze di attenzione individuale. Ricordiamo che lo scopo non è terapeutico, ma sem-mai di “clinica sociale”. Lo snodo è nell’assetto mentale di chi conduce il LG, nell’interrogazione prioritaria della società interiore che tu porti come condut-tore, delle tue matrici sociali e degli incroci, incontri, differenze, somiglianze con le matrici sociali di tutti gli altri partecipanti.
La nostra modalità di conduzione non prevede una interpretazione focaliz-zata sui singoli partecipanti, ma ogni intervento dei conduttori, nel riprendere il più attentamente possibile i contributi di ogni partecipante, mira a mantenere il clima del gruppo in costante visibilità e parlabilità democratica. Diventa così estremamente interessante e fruttuoso leggere i conflitti, che inevitabilmente si generano fra i singoli partecipanti, o fra i diversi e cangianti sottogruppi, come lenti di amplificazione della specifica dinamica attraversata in quel mo-mento dal gruppo. La scelta di essere in quattro conduttori permette non solo di presidiare con più energia i confini del gruppo e fornire indirettamente al gruppo medesimo un esempio di gruppo di lavoro, ma permette anche di de-centrare e modulare le proiezioni e i possibili tentativi di alleanza da parte dei partecipanti.
Il grande gruppo ha funzioni assai potenti sulla paralisi del pensiero e della parola ed il dialogo è un punto di arrivo, non un obbligo di partenza. Infatti le sette sedute, a cadenza così ravvicinata hanno lo scopo di dare ad ognuno, e a tutti, quello spazio -tempo fatto di reciproche parole, nonché di silenzi, che per-mette il transitare di ognuno nelle vicissitudini della comunicazione. Si attiva così una sorgiva struttura a partire dalla quale può nascere il pensiero del grup-po. Ciò presuppone che lo staff ed i partecipanti riescano a sostare nell’incertez-za, a tollerare il vuoto, ad accettare anche e soprattutto di non capire, esercitando quella che Bion definì “capacità negativa”. Capacità di essere creativi innanzi alla conflittualità, e vivere il vuoto come apertura, come occasione per far nasce-re pensiero là dove potrebbe esserci solo agito difensivo od offensivo.
Questo è secondo noi lo scopo finale del Large Group, che va oltre il sem-plice condividere emozioni, vissuti, esperienze. La funzione dei conduttori è quindi fondamentalmente quella di guidare il gruppo dalla frammentazione iniziale di emozioni, percezioni e vissuti verso una nascita ed una successiva crescita del pensiero e del dialogo. La conduzione gruppoanalitica del Large Group, attraverso la gestione creativa, contenitiva, ma soprattutto democratica della parola, diviene così la forza facilitatrice per la nascita e per la sopravvi-venza di quel pensiero che è allo stesso tempo individuale e gruppale.
METODOLOGIA: LO STAFF DI CONDUZIONE
Lo staff di conduzione è a sua volta un gruppo in senso propriamente grup-poanalitico, con le sue dinamiche, le sue difficoltà, divergenze, conflittualità, processualità che occorre vedere e di cui bisogna prendersi cura. Deve essere un gruppo PERMANENTE, che si interroga costantemente e lavora con conti-nuità su se stesso e su ciò che costruisce nei LG. Pertanto durante gli intervalli tra le sette matrici i conduttori proseguono il lavoro scambiando riflessioni sugli accadimenti, cercando di cogliere la processualità in atto, ripensando ai propri interventi e prefigurando quelli a venire. Inoltre nello staff si deposita, per così dire, il precipitato del lavoro di tutti i gruppi condotti, diventando ma-teria di ulteriore ripensamento su come lavorare in futuro. Da qui la necessità di incontri regolari e costanti.
In altre parole per far parte dello staff di conduzione occorre un training formativo che parte dalla partecipazione come membro ad un certo numero di LG per viverne direttamente l’esperienza, passa attraverso la funzione di osservatore partecipante che ha il compito di ausilio e altro occhio libero e critico per comprendere il processo e il risultato del lavoro svolto, fino a giun-gere a sperimentarsi come conduttori. Questo non è, spero l’abbiate colto, un approdo ad un porto sicuro, ma il momento della partenza verso orizzonti sempre da scoprire.
David Armstrong
David Armstrong dalla fine degli anni ’80 ha collaborato con Gordon Lawrence allo svi- luppo del Social Dreaming. Il suo approccio alla consultazione si ispira al pensiero psico- dinamico e sistemico e i suoi principali ambiti di interesse riguardano le dinamiche delle organizzazioni e l’importanza dell’esperienza emotiva per la comprensione e la prassi ge- stionale e di leadership. Ha un’ampia esperienza lavorativa nei settori pubblico, privato e di volontariato nello UK, negli USA e in Europa
Lavoro presentato a “The Dreaming Consultant”: In Memoria di W. Gordon Lawrence, Israele 11-12 dicembre 2014.
Traduzione di Giorgio Bertin con contributo di Gabriella Rosone
(Psicologa psicoterapeuta, Responsabile dei Quaderni di APRAGI e menbro del Direttivo. Docente Scuola COIRAG, Socia Arcipelago, past President Associazione Nexus. Svolge attività libero professionale, terapeuta practitioner EMDR)
È caratteristico degli innovatori, come delle loro innovazioni, che possono farti ripensare o rimettere in discussione ciò che finora hai dato per scontato; modi di pensare e di lavorare che possono estendersi oltre i confini dell’inno-vazione stessa.
Quindi, con le innovazioni di Gordon Lawrence nel e con il social drea-ming, uno dei suoi significativi contributi nella e alla mia esperienza è stato il modo in cui ha esteso i modi in cui mi sono trovato a pensare ai sogni e al sognare in una varietà di contesti pratici che si trovano da qualche parte tra la psicoanalisi e il social dreaming “vero e proprio”.
Voglio iniziare condividendo due particolari esperienze che rientrano in questo spazio, ciò che sembravano generare e poi ritornare al social dreaming “vero e proprio”, collegando sia gli sviluppi post freudiani che quelli kleiniani alla concettualizzazione della natura e della funzione del sogno. Affermerò che questi sviluppi hanno significative implicazioni sul modo in cui possiamo comprendere e utilizzare il social dreaming, i suoi guadagni e, a volte, le sue perdite.
Le esperienze che voglio condividere derivano da due pratiche conosciute,
immagino, dalla maggior parte di questo pubblico: la consultazione del ruolo e le relazioni di gruppo (Group Relations).
Un sogno ricordato
In un articolo scritto per il simposio annuale dell’ISPSO nel 2000, quindi non molto tempo da quando avevo iniziato a lavorare con Gordon Lawrence, avevo descritto un sogno proposto inaspettatamente da una paziente circa un anno dopo una serie di consultazioni del ruolo (Armstrong 2005). Non riesco a ri-cordare ora se questa sia stata la prima volta che questa, o qualsiasi altro pa-ziente, abbia condiviso un sogno durante il corso di Consultazione del Ruolo, anche se sospetto che lo fosse. E certamente questo non era qualcosa che fino a quel momento avrei proposto o suggerito.
La mia paziente era a capo di un grande istituto di formazione per giovani (e alcuni più anziani) in una zona povera e svantaggiata del centro città.
All’epoca in cui ho iniziato a lavorare con lei, era appena subentrata come Preside ed era preoccupata della necessità, per come la vedeva, di dare nuova vita a un’istituzione, che per alcuni aspetti sembrava piuttosto chiusa, in diffi-coltà e mal gestita. All’atto pratico, nelle interazioni tra studenti e personale, si stava svolgendo un lavoro entusiasmante, buono come aveva visto da altre parti. Ma queste interazioni apparivano come incontri di apprendimento priva-tizzati, non coordinati, frammentati e frammentari. Il personale e gli studenti abitavano, per così dire, in una serie di scatole dislocate. C’era poco senso di responsabilità aziendale, gestione finanziaria permissiva e una certa mancanza di direzione. Allo stesso tempo e entro un anno il college avrebbe affrontato la sfida di una transizione avviata dal governo ad una forma di autogoverno e avrebbe dovuto resistere o implodere in un ambiente molto più snello.
Per i primi due anni ho lavorato con lei, i temi principali della consulenza hanno riguardato i pensieri e i piani di rinnovamento della mia paziente. Don-na molto fantasiosa e piena di risorse, ha cominciato rapidamente a reclutare un nuovo organo di governo e a stabilire una rete di legami politici con sta-keholder reali e potenziali e altri alleati strategici della comunità locale, che era a sua volta impegnata nella “rigenerazione”. Allo stesso tempo, ha inizia-to a sviluppare un approccio molto originale per mettere in piedi una nuova struttura organizzativa, pur mantenendo costantemente una presenza visibile in tutto il college come leader forte e ispirata. È stato assunto nuovo personale in posizioni di alto livello, sono state create nuove posizioni e introdotte nuove
iniziative curriculari. È stata introdotta una dichiarazione di intenti più audace, una maggiore focalizzazione sul curriculum, nuovi atti costitutivi per studenti e personale e un chiaro senso di direzione e scopo.
A metà del terzo anno mi resi conto, come lei, di una profonda trasforma-zione nei suoi sentimenti. Cominciava a interrogarsi sul futuro e ad essere tentata da nuove opportunità da altre parti. A volte appariva quasi depressa, preoccupata per le tensioni e le differenze che sentiva tra coloro che ancora per lei rappresentavano la vecchia guardia e i nuovi arrivati. Eppure tutto faceva pensare che il posto fosse fiorente. Le opportunità per un nuovo edificio erano in vista, i risultati degli esami incoraggianti e il college si stava guadagnando una certa reputazione, sia a livello locale che nazionale.
Sentivo, in maniera un po’ confusa, che stesse lottando con cose che ave-vano a che fare con la sua relazione con il college e viceversa. La “profonda trasformazione” in lei è stato forse un riflesso ed anche una risposta a una profonda trasformazione all’interno del College. C’era anche un parallelo tra questa dinamica e la dinamica intorno alla sua relazione con sua figlia, che era sulla soglia della pubertà; un parallelo che a volte portava in seduta come una sorta di commento o controparte della sua esperienza organizzativa.
Avvicinandosi al suo quarto anno, verso la fine di una seduta, ha improv-visamente ricordato un sogno suggestivo di qualche tempo prima. Nel sogno aveva preso un bambino, avvolto in una coperta, da un mattone in un muro che aveva rimosso, doveva volare con il bambino su un aereo per Israele. Durante tutto il volo il bambino era rimasto avvolto nella coperta. Ma quando è atterra-ta e aveva aperto la coperta, il bambino non c’era più: era “evaporato”.
Ho preso questo sogno, così come ha fatto la mia paziente (o meglio non lo abbiamo preso tanto quanto lo abbiamo in realtà subito percepito) come se fosse stato ricordato e proposto, qui e ora, come commento del suo inconscio sulla situazione, dal punto di vista organizzativo, in cui si trovava la mia pa-ziente (anche attraverso il collegamento familiare a sua figlia) e che stavamo cercando di capire.
Da questo punto di vista, il sogno sembrava essere chiaramente la traspo-sizione dell’attuale esperienza e dilemma come Preside della mia paziente. Il bambino con la coperta, preso da un mattone nel muro che aveva rimosso, potrebbe rappresentare il “bambino” che aveva dato al college attraverso la fessura nel muro aperta con la sua nomina a Preside. (Nei nostri primi incon-tri aveva descritto il collegio come un “castello fortificato” abitato da “baroni
ladri”, una specie di mafia interna). Israele era la terra promessa che il bambino erediterebbe. Allora che dire del “bambino evaporato”? Questa immagine po-trebbe rappresentare una realtà che lei aveva percepito e a cui aveva resistito: che il bambino che aveva creato e trovato, per prendere in prestito la frase di Winnicott, cioè l’immagine del college che aveva formato e a cui aveva dato vita, da plasmare o modellare o averne cura, non era più suo. Era piuttosto, in una frase scritta che aveva usato, “scomparso nell’etere”.
Questo ha collegato e, a sua volta, ha contribuito a generare una trasforma-zione nel modo in cui ha iniziato a concepire il compito che lei e i suoi colleghi più anziani dovevano ora affrontare. In seguito ha ritenuto che ciò richiedesse un passaggio dall’intenzione all’attenzione, dalla cura al sostegno, dal pensare alla consapevolezza e dalla formazione al coinvolgimento (engagement), un termine che lei stessa ha richiamato e proposto.
Il sogno ricordato, si potrebbe dire, è stato liberato da lei per liberarla. Attra-verso questa liberazione e attingendo alla sua stessa formulazione, ha cambiato i termini del suo impegno con il college, come suo capo.
Recentemente, mi è capitato di imbattermi in un passaggio del romanzo au-tobiografico di Bion, ‘Memoria del futuro’, in cui PA, che rappresenta la voce psicoanalitica, commenta a proposito di un certo momento dello
sviluppo umano, come “la buona madre, di qualunque sesso alla fine si ma-nifesta essere vulnerabile alla perdita. Il prodotto diventa capace di un’esisten-za indipendente… ”(Bion 1991, p 353). Si potrebbe pensare al sogno come se emergesse da questa definizione e contemporaneamente desse un significato trasformativo.
Quando ebbi occasione per la prima volta di descrivere questo sogno, ero preoccupato delle domande sul significato o sui significati associati all’espe-rienza emotiva in un contesto organizzativo e sul ruolo del consulente di son-dare questo mondo insieme al suo paziente. Quello che potrei avere, se non esattamente perso, almeno non adeguatamente compreso o enfatizzato ha a che fare con quello che potremmo definire lo stato epistemologico del sogno stesso, il suo modo di conoscere, ciò a cui voglio provvisoriamente fare rife-rimento come la sua peculiare creativa autorità, come un evento mentale e in tempo reale.
Prima di approfondire ulteriormente questo aspetto, tuttavia, voglio affron-tare brevemente una seconda, successiva esperienza, questa volta in un conte-sto più specificamente gruppale.
Il sogno come leader
Due anni fa ho preso parte a una conferenza di relazioni di gruppo in Lituania, sponsorizzata congiuntamente dall’Università di Vilnius e dal Tavistock Insti-tute e diretta da Eliat Aram. Sono stato incaricato di condurre uno dei piccoli gruppi di studio (Study group), programmato dopo il primo giorno subito dopo un large group che si era tenuto di prima mattina. Per i primi due giorni il per-sonale aveva sperimentato una sorta di conflitto sia nel piccolo che nel grande gruppo nel portare alla luce una corrente inconscia sotterranea. C’era la sen-sazione, in parte innescata da esperienze pregresse durante questi incontri, di qualcosa di nascosto, che riecheggiava da una memoria storica e sociale passa-ta. (Sia molti membri del personale che una buona parte dei membri avevano fatto parte di questa precedente esperienza).
Poi, il terzo giorno, penso forse per la prima volta nel LSG (Large Study Group), un membro che era dello stesso SSG (Small study group) con cui stavo lavorando aveva condiviso, senza quasi ulteriori commenti, un sogno che aveva avuto di due nidi , in uno dei quali c’era un pollo morto, nell’altro una cicogna morta (che portava con sé dei bambini). Nel successivo SSG, dopo una serie di scambi piuttosto frammentari tra gli uomini, una delle donne si rivolse al sognatore per dire quanto fosse stata colpita da questo sogno e cosa le avesse evocato: il ricordo delle storie raccontate dalla nonna di esperienze vissute durante la guerra, vivendo vicino al confine tedesco, in cerca di cibo; di come fosse entrata in relazione con un prigioniero di guerra belga, che se n’era anda-to e che non avrebbe mai più potuto ritrovare a guerra finita. “Avrei potuto fare quello che ha fatto lei; avrei avuto il suo coraggio? “ All’improvviso il gruppo è apparso come pervaso dalla memoria, propria o dei genitori o dei nonni, e ogni membro del gruppo ha toccato temi legati a un coraggio perduto (un ef-fetto forse dell’immagine del pollo morto nel nido), della morte e della lotta per portare o mantenere in vita qualcosa, che sembrava riferirsi sia al personale che al gruppo presente e al passato storico e sociale.
Era come se il sogno, senza interpretazione o alcun tentativo di sondare il suo significato più strettamente personale per il sognatore, fosse servito ancora una volta, ma ora in un contesto di gruppo, a liberare qualcosa, il blocco del e sul ‘nascosto’, con il suo particolare registro emotivo. Si poteva così andare avanti.
Nella discussione plenaria di chiusura della Conferenza, dopo quella che era sembrata una preoccupazione piuttosto interminabile e narcisistica per la lea
dership, mi sono ritrovato a dire che l’esempio più eclatante di leadership a cui avevo assistito durante la conferenza non era la leadership della persona ma la leadership del sogno, suscitato ma non voluto, raccontato ma non esattamente autoreferenziale, che sembra toccare, almeno a volte, l’autorità dell’inconscio, poiché parla da e per la nostra appartenenza, più esattamente forse la nostra connessione con l’appartenenza.
Pensando ai sogni
Vorrei far notare che questi modi di parlare, dell’ “autorità del sogno” nel mio primo esempio, della “leadership del sogno” nel mio secondo, sono più che semplici o scherzosi giri di parole; corrispondono e derivano dagli sviluppi del modo di pensare e concettualizzare i processi mentali inconsci e dalla natura e dalla funzione dei sogni e del modo di sognare che sono sorti da quella che potrebbe essere definita la “ svolta epistemologica ‘’ in psicoanalisi, associata principalmente al lavoro di Wilfred Bion. A sua volta, vorrei far notare, questa ri-concettualizzazione, o almeno alcuni aspetti di essa, sono fondamentali sia per la comprensione che per la pratica del social dreaming, sono condizioni necessarie se non sufficienti.
Gordon Lawrence stesso era diventato ben consapevole di questo collega-mento e nel suo articolo del 2003, “Social dreaming as Sustained Thinking”, traccia più o meno lo stesso percorso (Lawrence 2003). Come in alcuni dei suoi scritti successivi, tuttavia, il vasto universo di riferimento di Gordon a volte minaccia di travolgere il lettore, come se lui o lei dovesse inseguire e scovare troppe lepri (qualcosa di simile al modo in cui in una Matrice il proli-ferare di associazioni può a volte minacciare di soffocare o “ingabbiare” i so-gni stessi, come ha fatto notare un membro di una recente matrice londinese).
Qui, vorrei restare più vicino a un particolare resoconto della svolta psi-coanalitica a cui mi riferisco, presentato nel libro di Donald Meltzer Dream Life: Psychoanalytical Theory and Technique, pubblicato per la prima volta30 anni fa, quindi più o meno coincidente con le prime esplorazioni di Gordon (Meltzer 1984).
Sogni come pensare
Per Meltzer, come per Bion, il sogno è concepito come una forma di pensiero, generato prima della parola, lavorando su e a partire dall’esperienza emotiva.
Il sogno è visto come (ed è sentito dal sognatore come) un evento della vita, un “modo di esperienza reale della vita”, non semplicemente una rielaborazione nel sonno delle esperienze della veglia, come per Freud; né semplicemente una continuazione durante il sonno delle fantasie inconsce che accompagnano la vita di veglia, come per Klein. Come scrisse Bion, in Key to A Memoir of the Future, “trovo utile trattare gli ‘accadimenti’ come se fossero reali quando il sognatore è in quello stato mentale come gli ‘accadimenti’ che sono vissuti dalla persona che è presumibilmente sveglia ed “è molto lucido””(Bion 1991, p 606).
In contrasto con Freud e Klein, Meltzer delinea un resoconto del sogno, mentre lo sperimenta nel lavoro analitico, come generativo, cioè diretto a chia-rire, elaborare e risolvere, o cercare di risolvere, problemi emotivi e conflitti presentati e appresi internamente nel mondo interiore. È in questo senso che il sogno diventa una forma di pensiero inconscio (come il gioco nei bambini pic-coli), ricollegandosi alla prima definizione di pensiero di Freud come “azione sperimentale, esperimenti progettati per risolvere problemi e conflitti senza bisogno di ricorrere all’azione nel mondo esterno “.
La “vita da sogno”, dice, “può essere vista come un luogo in cui possiamo andare nel sonno, quando possiamo rivolgere la nostra attenzione completa-mente a questo mondo interno. Il processo creativo del sogno genera il signifi-cato che può poi essere distribuito alla vita e alle relazioni nel mondo esterno ”(Meltzer, op cit, p46).
Per questo motivo il lavoro del sogno non deve più essere pensato tanto nei termini delle quattro categorie di Freud (spostamento, condensazione, forma-zione di simboli e revisione secondaria) viste come mezzi di travestimento, che rappresentano l’“astuzia del sognatore vis a vis con il censore del sogno”, dove è come se il meccanismo del sogno, il suo contenuto manifesto, cercasse di di-struggere il significato piuttosto che generarlo. Piuttosto il sogno è visto come un lavoro su principi analoghi alla “dizione poetica” (Ella Sharpe), attraverso la similitudine, la metafora, l’allitterazione, l’onomatopea, l’ambiguità, dove l’oscurità del significato non è necessariamente da identificare con il criptico o il nascosto; e il ruolo dell’analista può avere meno a che fare con l’interpre-tazione come con la comprensione, tentando di sognare e leggere il sogno con il sognatore.
Ci sono aspetti, mi sembra, in cui i due sogni con cui ho iniziato possono essere considerati, in modi diversi, ciascuno come attinenti ed esemplificativi
molto, se non tutto, del racconto di Meltzer. Entrambi condividono il senso di una funzione mentale al lavoro, rispondendo a un certo flusso emotivo su-scitato nel sognatore (depressione / morte) e modellandolo in qualcosa che, metaforicamente, comincia ad assomigliare a ciò che Gordon Lawrence amava chiamare un’ ‘ipotesi di lavoro’: questo è quello che sta succedendo qui e que-sto è il motivo. La differenza tra loro è forse che il primo sogno contiene la sua soluzione, porta la propria autorità creativa. Il secondo suggerisce la soluzione, dal gruppo; li invita, per così dire implicitamente, “a sognare e leggere il sogno con il sognatore” Questa è la sua forma di leadership. Meltzer chiama questo processo (leggere il sogno con il sognatore) “formulazione”, una estrapolazio-ne collettiva del significato in contrasto con l ‘”interpretazione”, che si riserva di lavorare sul significato del sogno in relazione al transfert.
Il sogno nello spazio sociale
Il punto in cui entrambi i sogni, tuttavia, si discostano dal racconto di Meltzer è in quello che ho chiamato in precedenza il loro “appartenenza al contesto”. Meltzer proveniva da una tradizione kleiniana molto classica, che ha influenza-to profondamente sia il suo pensiero che la sua pratica. In tutta la sua scrittura, incluso Dream Life … il primato è sempre assegnato al mondo interno, agli oggetti e agli oggetti parziali in relazione dinamica e in costante mutamento. Il movimento del significato nel suo racconto della vita psichica è sempre dall’in-terno all’esterno. Come se i mobili del mondo esterno, di per sé, potessero solo, per così dire, prendere in prestito e non generare significato.
Per quelli di noi, tuttavia, che lavorano in contesti sociali e organizzativi (il “mercato” di Shmuel Erlich) il movimento per trovare e dare significato è tanto bi quanto unidirezionale. Interno ed esterno si plasmano o echeggiano l’un l’altro, in qualcosa di simile a un processo dialettico, come nel sogno della mia cliente del volo in Israele, che attinge e contrappone simultaneamente i due mondi della sua esperienza, privato e pubblico, tessendo il legame tra di loro in un modo che aggiunge significato a ciascuno.
Sia nel campo psicoanalitico che in quello socio-analitico il punto di origi-ne, ciò che fa partire il pensiero del sogno, è l’esperienza emotiva, percepita prima della parola. Ma in quest’ ultimo, il punto di origine non deve essere considerato semplicemente inglobato / situato all’interno dell’individuo. Piut-tosto è diffuso, per così dire, attraverso uno spazio sociale. Di conseguenza, si potrebbe dire, il sogno evocato in un contesto sociale o organizzativo, sta par
lando sia da che verso quello spazio, per quanto personali o individuali siano le caratteristiche delle sue immagini o il suo racconto. Così come il sogno dei due nidi, qualunque fosse la risonanza individuale delle sue immagini, parlava da e verso lo spazio di questa “conferenza” proprio in questo contesto sociale e storico, in modo rappresentativo.
In un libro meravigliosamente illuminante del filosofo e psicoanalista ame-ricano Jonathan Lear, pubblicato nel 2006, Lear racconta la storia della tribù nativa americana degli Indiani Crow (la Nazione Crow) di fronte all’imminen-te fine del loro modo di vivere e dei sogni portati alla tribù dal loro ultimo e futuro Grande Capo mandato, come un ragazzo in un familiare rituale tribale, ad implorare il Grande Spirito di concedere un sogno, in un momento in cui la Nazione era in una sorta di impasse storico (Lear 2006).
I Crow cercavano e usavano abitualmente i sogni (per loro le visite di un Grande Spirito) per ottenere informazioni sul futuro, per determinare se gli eventi fossero propizi in relazione ai loro desideri e intenzioni, per sapere dove si poteva trovare un terreno di caccia o una battaglia a cui si potesse partecipa-re con successo . “Ciò che colpisce (però)”, dice Lear, “del sogno del giovane (futuro capo), e l’interpretazione che gli ha dato la tribù, è che è stato usato dalla tribù non solo per prevedere un evento futuro; ma anche per lottare con-tro l’incomprensibilità degli eventi che si trovavano all’orizzonte, lontani della loro capacità di comprensione ”(Lear, op. cit. p. 66).
Differenziandosi dal racconto iniziale di Freud dei sogni come realizzazio-ni di desideri e citando il successivo riconoscimento di Freud della possibilità che un sogno possa essere una manifestazione e rappresentazione di ansietà, Lear legge i sogni del giovane come una “parte integrante di un processo me-diante il quale la tribù ha metabolizzato il suo stato di ansia condivisa, concet-tualizzata non come localizzata specificamente in questa o quella persona, ma come diffusa in tutta la tribù. È la tribù, o forse anche più precisamente, uno stile di vita che è ansioso, sebbene non si possa ancora dire di cosa è ansioso. (Il giovane futuro capo) raccolse queste ansietà indefinite e le trasformò in una forma onirica. Ha sognato per conto della tribù e il sogno ha trasformato que-ste preoccupazioni ansiose in forma narrativa. Gli anziani della tribù furono quindi in grado di prendere il racconto del sogno e trasformarlo in un pensiero cosciente articolato sulle sfide che la tribù avrebbe dovuto affrontare ”(Lear, op. cit. p. 77).
Per questo motivo, così in sintonia con la concettualizzazione di Gordon del Social Dreaming, il sogno può essere visto come una risorsa immaginativa, una capacità che, afferma Lear, “potrebbe aiutarci a rispondere meglio alle sfide del mondo più di quanto saremmo in grado di fare senza di esso”.
È questa capacità, credo, che Gordon cercasse sia di riscoprire che di rifor-mulare nella pratica del Social Dreaming. Allo stesso tempo, però, credo che il racconto di Lear, letto insieme ai due esempi da cui sono partito, possa servire a mettere maggiormente in risalto le condizioni da cui può dipendere la rea-lizzazione di questa capacità. Vorrei suggerire 3 di queste condizioni, ognuna delle quali riguarda quella che può essere definita la posizione di una matrice nello spazio sociale. Queste sono:
1) la presenza sentita di un contesto condiviso, che ha
2) rilevanza emotiva per i suoi membri e
3) è in procinto di diventare non completamente conosciuto, cioè incerto.
Il fatto che queste condizioni siano necessarie (se non sufficienti) deriva credo dalla concettualizzazione del pensiero onirico o del pensiero del sogno che ho delineato in precedenza: in particolare la sua dipendenza da un flusso emotivo, in grado di essere contenuto abbastanza da suscitare un modo di rappresenta-zione, ma il significato di ciò che resta da trovare e realizzare (un altro modo, per inciso, di rendere conto della qualità enigmatica delle immagini dei sogni). Se un contesto condiviso non viene percepito o sentito, o se manca di rilevanza emotiva, o se in qualche modo sfugge all’ambiguità o all’incertezza, c’è troppo poco per il sogno su cui lavorare. Né alcuna garanzia che se, tuttavia, un sogno è condiviso, ha uno specifico riferimento sociale.
Non credo che queste siano solo considerazioni astratte. Penso che si rife-riscano e possano gettare luce su quelle occasioni in cui, ad esempio, una ma-trice viene inondata di materiale onirico in un modo che sembra non digerito, o quando la velocità e la complessità delle associazioni o delle amplificazioni minaccia di soffocare i sogni stessi. È come se, in tali occasioni, un conte-sto condiviso non fosse stato pienamente sentito o coinvolto emotivamente, o, in alternativa, fosse eluso, i sogni o il materiale associativo venissero quindi utilizzati piuttosto per evacuare o disperdere che per generare significato (un processo non sconosciuto anche in psicoanalisi (Segal 1991)).
Lo stesso Gordon insisteva sempre, a volte dogmaticamente, sull’importan-za di non affrontare o prestare attenzione ai processi di gruppo all’interno di
una Matrice, che riteneva compromettessero l’attenzione su ciò che potrebbe essere definito il “sogno in sé” o “sogno come un modo di essere”. Ma, ovvia-mente, questo non significa nemmeno che la Matrice o il materiale del sogno stesso possano sfuggire del tutto a tale intrusione, l’attacco al “collegamento”.
Gerard Fromm, in un articolo scritto nel 2000, prendendo spunto da un’idea di Erik Erikson sull’etno in contrasto con l’aspetto o la funzione ego sintonica del sogno, parla e illustra il modo in cui i sogni, raccontati o ascoltati all’interno di una particolare cornice o contesto, possono servire a ciò a cui si riferisce, in una frase sorprendente, come “finestre sulla cittadinanza inconscia”, “può rivelare la propria profonda consapevolezza inconscia, connessione e respon-sabilità per la propria famiglia, la propria comunità, persino la propria nazio-ne”. Ogni sognatore, a questo proposito o sotto questo aspetto, è, suggerisce Fromm, “potenzialmente un” veggente “(notare l’ambiguità) del suo” popolo “e del rapporto con questo Altro” (Fromm 2000).
L’argomento è più complesso di quanto lo stia facendo sembrare, sia collega-to ma anche differenziato dal pensiero di Gordon Lawrence, e spazia attraverso una varietà di cornici: terapeutica, gruppale e sociale. Quello che voglio trarne qui si riferisce alla discussione di Fromm su un sogno di una giovane donna in cura, portato e riferito all’Incontro di Comunità di una comunità terapeutica domestica in cui era entrata di recente. In questo sogno, che aveva esitato a raccontare, chiedendosi se fosse appropriato, era come se stesse anticipando, prevedendo un potenziale trauma comunitario in cui una particolare paziente, di cui non sapeva il nome, cadde o saltò fuori dal pianerottolo terzo piano:
“Sono stata svegliata da questo forte schianto. Ero terrorizzata. Ho pensato per certo che X fosse caduta o fosse saltata dal pianerottolo del terzo piano. Sono corsa alla porta per chiedere aiuto, ma avevo paura di aprirla. Rimasi lì e pregai per alcuni secondi. Ricordo che stavo sudando. Poi ho aperto la porta. Era un membro del personale notturno che aveva lasciato cadere qual-cosa. Ero così sollevata”.
Il racconto di questo sogno e alla presenza della paziente del sogno, che era in realtà in uno stato quasi suicida (da qui la riserva del sognatore nel racconto), avviava quello che Fromm chiama un “dialogo vitale”, in cui gli altri erano in grado di riconoscere qualcosa della propria paura e shock di fronte al compor-tamento regressivo e, contrariamente alle paure del sognatore, il vero paziente è stato in grado sia di riconoscere che di possedere il proprio impatto sull’altro
e di sentirsi a sua volta riconosciuto dall’altro.
Raccontando questo episodio Fromm prosegue dicendo:
“Sto suggerendo qui …, 1) che sognare questo sogno, che potrebbe essere pensato come un sogno anticipatorio di un trauma, era un atto di cittadinan-za, 2) che il sogno raffigura un atto di cittadinanza, 3) che il racconto del sogno è un atto di cittadinanza e 4) che richiama la signora X (la paziente del sogno) e altri al (ruolo di cittadinanza) ”.
Penso che questo passaggio, dal vedere semplicemente il sogno e il suo raccon-to come una “finestra su” a vederlo come un “atto di” cittadinanza inconscia sia centrale per l’idea dell’autorità del sogno mentre sto cercando di compren-derlo.
Da questa prospettiva, si potrebbe dire, il Social Dreaming, come conce-pito da Gordon, è un modo per mettere in pratica questa potenziale funzione. Testarlo, metterlo in discussione all’interno e attraverso diversi settings con-testuali. In questo senso, una modalità di Ricerca Azione, ma in cui e per la quale il pensiero inconscio ha la chiave, è essa stessa lo strumento di ricerca.
Se Gordon avesse visto il Social Dreaming proprio in questo modo è una questione aperta. In particolare nei suoi scritti successivi, la preoccupazione di Gordon diventa sempre più come una sorta di funzione generica che ha a che fare con la generazione del pensiero e del pensare, come se fosse legato al pro-cesso del Social Dreaming, piuttosto che il suo oggetto o il particolare contesto in cui è ambientato. Da qui la sua ultima formulazione di scopo, che a volte oggi rischia di diventare qualcosa di rituale, recita: “trasformare il pensiero esplorando i sogni con i metodi della libera associazione, dell’amplificazione e del pensiero sistemico, in modo da creare collegamenti, trovare connessioni e scoprire nuovi pensieri e nuovi modi di pensare ”. Qui il contesto o è dato per scontato o è rimosso, per diventare semplicemente il contesto di una co-munità di sognatori o di persone che sognano insieme. Nella mia esperienza questo può dare origine a una sensazione stranamente disincarnata, in cui il mantra di accompagnamento “il nostro focus è sul sogno, non sul sognatore” rischia di privare il materiale della sua energia psichica, il senso del sogno come un “evento reale” in “tempo reale”, qualcosa che si presenta, al contrario, con un’urgenza irresistibile nei seminari congiunti, israeliano e palestinese, descritti da Hanna Biran in “The Dreaming Soldier” (Biran 2007).
Nessun sogno può essere completamente svincolato dal sognatore, così come una poesia può essere completamente separata dal poeta. Ciò che sta
dietro al mantra “sogno non sognatore” è il desiderio di evitare qualsiasi ten-tazione di leggere il sogno nei termini del suo significato più personale. Ma se si pensa piuttosto a quell’aspetto del sogno come “finestra sulla cittadinanza inconscia”, è sicuramente e nondimeno una finestra da un particolare punto di vista o posizione individuale. A questo proposito si potrebbe pensare alla Matrice come a un aggregato di tali punti di vista, radicati nell’esperienza individuale, visti come elementi o frattali del “contesto-nella-mente”. Il lavoro di ricerca e di valorizzazione sociale diventa allora il tracciamento di quanto emerge dal susseguirsi di sogno e sogno, con il loro flusso associativo. In ef-fetti, è proprio questo che differenzia il Social Dreaming da ciascuno degli esempi che ho citato in precedenza.
Cosa succede allora all’idea dell’autorità del sogno all’interno di una Ma-trice, quando condividere e lavorare con i sogni e il sogno diventa il compito di lavoro espressione di un particolare aggregato socialmente limitato, riunito insieme (W nei termini di Bion)?
Non sono sicuro di come rispondere a questa domanda. E forse lo scopo di questo lavoro è semplicemente chiederlo. O magari invitarci a continuare a chiederlo, Matrice by Matrice, senza darlo per scontato o lasciarlo da parte. Forse si dovrebbe pensare all’autorità come a una proprietà emergente: quei momenti in cui un sogno o una sequenza di sogni, come nel sogno dei due nidi, muove le cose, o, come nel sogno della mia paziente del volo in Israele, risponde a un dilemma; cambiare i modi in cui siamo arrivati a inquadrare i contesti in cui viviamo e lavoriamo.
È questo aspetto mutativo del sognare, vorrei far notare, in cui si trova l’autorità, fuori dall’elaborazione inconscia dell’esperienza sociale e non solo dal suo riconoscimento; il posto nella mente, come diceva Yeats anni fa, dove “ini-ziano le responsabilità”.
Franca Fubini
Psicoterapeuta a indirizzo psicoanalitico, gruppoanalista, Consulente di organizzazione. Chair del Social Dreaming International Network. Direttrice Scientifica del Nodo Group.
Traduzione a cura di Federica Nespole** con revisione di Luisella Pianarosa***
** Psicologa, psicoterapeuta, Socia APRAGI e menbro del Direttivo. Terapeuta presso Arcipelgo, Centro di Gruppoanalisi applicata
*** Psicologa, psicoterapeuta, socia APRAGI.Terapeuta practitioner EMDR, Mindufulness relazionale, Neurotrainer Neurofeedback dinamico non-lineare. Responsabile del Centro Territoriale Nord C.O.I.R.A.G.
Tutte le azioni e i fenomeni dimorano nella mente. La mente dimora nello spazio Lo spazio non dimora da nessuna parte
(Guhyasamaja)
Prologo
La capacità di mettere in relazione l’apprendimento con il contesto in cui si svolge è un elemento essenziale di relazionalità: questo lavoro si concentra sulla relazione con il contesto in cui si svolgono le attività umane, sia esso geografico, storico, sociale o culturale.
Ispirato da una consulenza clinica in cui un genius loci/mito di fondazione catalizzava l’identità del gruppo coinvolto, esplorerò le connessioni tra incon-scio e spazio, architettura e sogno; tra contenitore e contenuto.
Prima di addentrarci nel caso clinico, verranno menzionate tre aree corre-late, ciascuna essenziale per lo svolgimento di una consulenza organizzativa:
• Lo spazio visto con la sua qualità di vuoto, in contatto con l’ignoto dove il nuovo pensiero può emergere,
• Lo spazio pensato come paesaggi, principalmente costruiti, che creano l’ambiente, lo sfondo scenografico per i diversi fenomeni della vita di un’organizzazione (e della vita in generale),
Lo spazio è vuoto?
Lo spazio è l’elemento da cui siamo circondati, ma anche il luogo del naturale e degli ambienti costruiti dall’uomo. La parola “spazio” include il significato sia dell’elemento “spazio” (come in terra, fuoco, acqua, aria e spazio) sia lo spazio come contesto, il contenitore spesso visto come la cornice o lo spazio delimitato che, insieme al suo contenuto, rappresenta il prototipo della fertilità per creare qualcosa di nuovo: bambini, prodotti, risultati, pensieri, relazioni. Un contenitore è anche uno spazio mentale, capace di accogliere qualcosa da contenere, in una relazione mutualmente trasformativa. Qui guarderò alla relazione contenitore/contenuto come spazio vuoto che contiene tutte le po-tenzialità che i contenuti appaiano.
Quando stavo cercando di imparare a disegnare, il mio insegnante mi ha suggerito di concentrarmi sullo spazio intorno a un oggetto piuttosto che sull’oggetto stesso; in quel momento questo non aveva alcun senso: semplice-mente non riuscivo a vederlo.
Ci sono voluti anni per raggiungere la capacità di vedere lo spazio e la con-sapevolezza che l’apparente vuoto è ciò che permette alla materia emergente di manifestarsi; che in realtà i due sono profondamente interconnessi. Il vuoto è il potenziale infinito per l’apparizione della vita.
Fisici moderni, artisti, maestri spirituali, filosofi, psicoanalisti si interroga-no sul rapporto tra vuoto e mondo materiale.
I fisici definiscono il vuoto, quell’assenza, come il vuoto quantico, uno stato dal quale sono state rimosse tutta la materia e l’energia; quindi il vuoto è totale assenza e nello stesso tempo totalmente pieno.
David Peat (2000), fisico, stretto collaboratore di Bohm, afferma che
“lo stato del vuoto è il vuoto. È puro silenzio, ma è anche il mare ribol-lente in cui le particelle elementari danzano costantemente dentro e fuori dall’esistenza … piuttosto che una realtà costituita da molecole e particelle elementari collegate ad uno stato di vuoto inconsistente, è lo stato di vuoto che diventa la realtà primaria”.
Per andare oltre, la meccanica quantistica ipotizza che ciò che è considerato materia oggettiva sia forse solo il frutto della mente, una visione molto vicina alle affermazioni della filosofia buddista secondo cui tutti i fenomeni sono
privi di esistenza intrinseca o propria natura, sono semplicemente il frutto di una complessa rete interdipendente di relazioni (Varela, Thompson, Rosch 2009) Markus Aspelmeyer dell’Accademia austriaca delle Scienze e Anton Zeilinger (Brooks, 2007) dell’Università di Vienna, affermano
“… ora dobbiamo affrontare la possibilità che non ci sia nulla di intrinseco e reale nelle proprietà di un oggetto che misuriamo. In altre parole, misurare queste proprietà è quello che le porta all’esistenza.”
Erwin Schrödinger, lo scopritore dell’equazione quantistica fondamentale, e Mark Planck, il fisico che inavvertitamente ha avviato la rivoluzione quanti-stica, sono giunti a una conclusione simile:
“La mente ha costruito l’oggettivo mondo esterno … partendo da se stessa.” (Varela, Thompson, Rosch 2009).
Come i fisici moderni, molti artisti contemporanei hanno offerto i prodotti della loro ricerca nel campo, cercando quel vuoto dove mancano indizi visivi e acustici, per ritrarre il vuoto che spiazza il pubblico, tanto che potrebbe essere indotto a dubitare che la realtà sia ciò che normalmente viene definito come realtà.
Gordon Lawrence, immerso nel processo di sviluppo del Social Dreaming (SD), ha scritto ampiamente sul concetto di infinito. Dal cosmo sconfinato delle Upanishad al concetto più recente della meccanica quantistica dove “vita e materia non possono essere differenziate”.
“Vinto dal vuoto e dall’infinito senza forma” uno dei suoi primi articoli sul
SD si apre con una citazione di Jung:
“Il sogno è una piccola porta nascosta nei recessi più intimi e segreti dell’an-ima che si apre in quella notte cosmica che era la psiche molto prima che ci fosse un ego “(Lawrence, 1998)
Lawrence postula che il sognare sia il ponte tra quello spazio infinito – vuoto e pieno di potenzialità – e il mondo della materia in cui viviamo.
Lawrence ha dovuto contattare lo spazio mentale dell’ignoto, libero da pre-concetti per trovare o scoprire un nuovo modo di pensare al sognare, diverso dalla penombra delle associazioni legate al già noto lavoro sui sogni della psicoanalisi. Ha postulato che nessuna scoperta può vedere la luce del giorno senza passare per la sconcertante esperienza di uno spazio sconfinato. L’in-finito e il suo rapporto con la creatività sono centrali per la teoria e la pratica del SD (2010).
Ne “L’interpretazione dei sogni” Freud (1900) afferma:
“C’è in ogni sogno almeno un punto che è inespugnabile, un punto centrale, per così dire, che è il punto di contatto con l’ignoto”.
Bion parla dell’infinito, della realtà ultima O, che è inconoscibile, “può di-ventare, ma non può essere “conosciuta” “(Bion, 1984a). Si interroga su che cosa si frapponga rispetto alla possibilità di essere in contatto con O. La sua teoria del pensiero è molto interessata alle difese che limitano la conoscenza. Il tempo, lo spazio e la causalità possono virare dal rappresentare strumenti utili per navigare nell’incerto a mura restrittive di una prigione – un esosche-letro – abitato da compiacenza, dove la vitalità che deriva dal contatto con O è spremuta fuori dall’esistenza.
Suppongo che, anche se non menzionata perché spesso non c’è né consa-pevolezza né parole per esprimerla, ogni incontro – individuo, gruppo, orga-nizzazione – porti la richiesta implicita di toccare l’infinito, l’ignoto, lo spazio vuoto da cui qualcosa di nuovo può apparire e scardinare processi mentali che sono rimasti bloccati o hanno perso di interesse.
“Dedicare tempo a ciò che è stato scoperto significa concentrarsi su un’ir-rilevanza. Ciò che conta è l’ignoto e su questo (noi) lo psicoanalista deve concentrare la (nostra) sua attenzione.” (Bion 1984)
Leggere il paesaggio
Nelle nostre forme di pensiero si presume spesso che per definizione – di per sé un concetto restrittivo – ci sia un dentro e un fuori, che rappresentano una delle geometrie implicite della mente per tentare di venire a patti con l’ignoto appena sfiorato.
Questa sezione guarda allo ‘spazio’ come contenitore esterno, ambiente di contenimento, contesto da vivere.
Esso si manifesta come territorio, natura, edifici, architettura: per lo più paesaggi artificiali con la loro interazione con la natura e i suoi abitanti.
Cosa conferisce a un luogo, a un paese, a una città, a un paesaggio la sua specifica forma e il suo sapore? Cosa li rende ciò che sono e determina come influenzano gli esseri viventi? Come facciamo noi, esseri umani, a influenzare l’ambiente? Cultura, clima, configurazione naturale, qualità della luce, archi-tettura, storia, rapporti umani?
Tutti i precedenti; come sviluppare la capacità di leggere un paesaggio non
solo con la mente, ma con il proprio corpo e i propri sensi che di fatto sono i principali agenti che rispondono profondamente agli edifici, ai paesaggi e alle forme urbane? Come sentire il carattere di ogni paesaggio e la sua influenza sul proprio essere?
Qualche definizione di architettura:
“L’architettura è sempre sogno e funzione, espressione di un’utopia e stru-mento di convenienza. “(R. Barthes, 1967)
“L’architettura partecipa attivamente alle interazioni delle persone al suo interno: abitare un luogo è lasciare un’impronta. “(W. Benjamin, 1962)
Le persone lasciano impronte sui loro ambienti; gli edifici lasciano impronte sulle persone che li abitano. Louis Kahn, un grande maestro dell’architettura del secolo scorso, afferma che
“creare un’architettura implica una grande devozione al benessere dell’uma-nità … Gli edifici devono essere pieni di significato … spazio, pieni di ca-pacità evocativa … gli edifici hanno il potere di determinare il nostro com-portamento e atteggiamento … devono funzionare psicologicamente …
“(Brownlee, De Long 1991)
G. Bachelard (1957) nel suo libro fondamentale “La poetica dello spazio” indaga sullo spazio in cui nasce la poesia, nel tentativo di catturare le sottili influenze dello spazio, dai vasti orizzonti della natura all’intimità della propria stanza e dei piccoli spazi che proteggono l’intimità dell’anima; la percezione sensoriale dello spazio, la luce, il suono del vento, l’oscurità …; guarda al gio-co dell’elemento naturale così come tutti gli elementi dell’architettura: case con i loro mobili, scale, muri, finestre, porte.
Ha inventato una nuova parola, “topoanalisi”, per la psicoanalisi del mondo costruito e per l’indagine dei minimi dettagli dell’habitat, interconnettendo spazio e vita. Sostiene un’architettura che non dovrebbe essere separata dalle più profonde necessità dell’umanità e della vita, compreso il suo bisogno di sognare, sviluppare, creare e mantenere la propria identità distintiva, sia essa individuale o di un territorio o nazione o regione o città.
Quando l’architettura crea un ambiente di vita che offre elementi di qualità per la vita delle persone che lo abitano lo spazio diventa un sito, piuttosto che solo un luogo, (Heidegger 1976).
In “Psychoanalysis and Architecture”, Bollas (2000) esplora la rappresen-tazione psico-sociale- spirituale della vita umana attraverso i suoi prodotti costruiti. Nella forma di una città/paese/villaggio possiamo trovare le inter
pretazioni che un collettivo ha dato alla sua esperienza di vita; nel gioco ca-suale di vecchio e nuovo, troviamo le dichiarazioni visionarie di una società in divenire.
“Le città sono processi, per lo più inconsci”, entità viventi che fornisco-no un ambiente di contenimento i suoi abitanti, e che nella loro disposizio-ne ricordano l’apparente caos della mente inconscia. Gli elementi psichici di una mente individuale, come quelli di una città, si intrecciano, si incrociano come se dessero forma a una forma in movimento che crea visioni e principi organizzativi. Un concetto molto interessante, che Bollas in realtà prende in prestito da Lynch, parla di come una città ha bisogno di offrire ai suoi abitanti oggetti leggibili e altamente immaginabili non solo per la cura materiale della loro vita quotidiana, ma come forma di cura del proprio benessere psichi-co. Camminare, o meglio vagare, per le strade di una città diventa un’attività onirica che potrebbe generare momenti di profonda reverie: i sogni portano l’impronta di un’immaginazione architettonica; le strutture costruite entrano nei sogni, dove l’inconscio del regno materiale incontra l’inconscio degli indi-vidui. Sentieri, bordi, distretti, punti di riferimento e nodi (Lynch 1967) fanno parte di mappe cognitive urbane che rilasciano identità e riconoscimento ai suoi abitanti.
Il sogno sociale sostiene la cultura e la formazione dell’identità
La parola cultura condivide la radice etimologica di culto e coltivazione e rappresenta valori e comportamenti che contribuiscono all’ambiente sociale e psicologico unico di individui, organizzazioni, gruppi, nazioni ecc. È un elemento fondante dell’identità.
“Quando sogniamo entriamo in un’esperienza culturale in cui i modi della cultura sono stati sviluppati, testati, esplorati e rafforzati nella più profonda privacy del sogno.” (Lippmann, 1998)
I sogni sono al centro sia della nostra vita psichica, sia della nostra tradizione culturale.
La psicoanalisi, l’antropologia, gli studi sistemici hanno contribuito alla formulazione dell’ipotesi iniziale di Lawrence sul SD e hanno supportato l’in-tuizione che fosse uno strumento di indagine culturale per illuminare i proces-si inconsci nei sistemi e nella società.
Il SD si svolge nella matrice: connessioni mentali che si trovano sotto la
superficie della vita di gruppo dove è possibile accedere all’ampia rete delle relazioni vitali e dell’inconscio associativo (Long, 2013).
La matrice è multiforme: riflette sulle problematiche riguardanti i tanti con-testi condivisi a cui i partecipanti appartengono: istituzione, comunità, nazio-ne, umanità e matrice stessa. A un certo livello, infatti, ogni matrice parla di sé e del proprio processo; osserva la propria creazione di identità e, a questo livello particolare, possono aver luogo conversazioni significative, possono apparire pensieri interessanti su questioni esistenziali, sostenuti dalla capacità di pensiero in via di sviluppo e dalla connessione emotiva dei sognatori.
La pratica di applicare il SD per un periodo di tempo mostra che in effetti la matrice rivela il pensiero inconscio di un collettivo e insieme supporta lo sviluppo di significato per i suoi partecipanti; in questo modo la matrice può essere vista come un processo di strutturazione alla base dell’identità e della formazione della cultura.
Sogni e miti sono costituiti dallo stesso materiale psichico di base, organiz-zato però secondo logica e funzione differenti. (Kaes, 2002)
I miti hanno un ruolo fondamentale nella rappresentazione di una comunità e gli individui possono avere anche miti personali. Essi creano una mentalità particolare e distintiva; abitano la parte più arcaica della psiche.
L’importanza di sogni e miti e la loro connessione è stata esplorata da Freud, Jung, Abraham, Ranks; Kaes e Anzieu più recentemente e molti altri.
“Il fatto di trasporre concetti psicoanalitici acquisiti attraverso il sogno in prodotti dell’immaginazione popolare, come miti e leggende, sembrerebbe possibile. La necessità di un’interpretazione di queste creazioni esiste da tempo. “(Freud, 1913)
Lo studio dei sogni e del loro profondo legame psichico con il linguaggio simbolico del mito, della fiaba, dell’arte e del senso dell’umorismo fa parte dell’eredità che la psicoanalisi ha offerto per la comprensione della psiche.
Il mito – così come la favola, la leggenda e l’opera poetica- fa diventare oggettivo il sogno; il sogno chiarisce il mito.
Io ipotizzo che, attraverso la SDM, sia possibile accedere al mito di fonda-zione di un collettivo e che, così facendo, i processi mentali strutturali venga-no rivelati e trasformati.
La matrice, infatti, favorisce la strutturazione mentale del collettivo: rivela ciò che sta emergendo, così come trasforma le strutture mentali già esistenti. Il lavoro sui sogni è trasformativo e prevede i cambiamenti sociali.
Un caso clinico
Questa è la storia di una consultazione svolta in un grande dipartimento psi-chiatrico del SSN italiano, dopo la fusione in un solo dipartimento di quattro diversi servizi, geograficamente abbastanza distanti l’uno dall’altro, ma so-prattutto lontani a causa delle culture molto diverse e distintive sottostanti all’identità di ciascun territorio. È una storia di spostamenti, conflitti, comuni-cazioni interrotte e in definitiva di servizio scadente offerto al pubblico perché gran parte dell’energia disponibile era dedicata al sopravvivere alle difficoltà del personale piuttosto che a sviluppare la propria autostima professionale attuando le migliori pratiche sia per i pazienti che per il personale stesso. (Armstrong, 2005)
La fusione di dipartimenti, aziende, società è diventata una procedura comu-ne, spesso intrapresa sul terreno dell’efficienza e dei ritorni finanziari sperati; purtroppo è anche un processo che ha costi enormi e sottostimati per la realtà psichica di un’organizzazione: vale a dire collegamenti, relazioni, senso di va-lore e identità, bisogni di dipendenza, riconoscimento dei ruoli ecc. Colpisce la cultura, cioè i valori e i comportamenti che contribuiscono allo specifico am-biente sociale e psicologico di un’organizzazione. Così unico per ogni organiz-zazione e una delle cose più difficili da modificare. (De Gooijer, J. 2009)
Le fusioni gestite in modo inadeguato portano a gravi interruzioni nella rete dei tessuti connettivi dell’organizzazione, e non per caso, in quanto la mappa dei territori con relativi confini viene spezzata e frammentata.
Nel dipartimento esaminato c’erano motivazioni molto solide per una fu-sione, ma sfortunatamente insieme a queste vi erano anche i tratti caratteristici di un luogo di lavoro perturbato e psichicamente non gestito.
La fusione, tuttavia, è la storia di fondo: il focus di questo caso, è sullo spazio / territorio e sui sogni come contenitori di elementi chiave inconsci che suppor-tano la ricostruzione dell’identità e della cultura. Essi hanno portato alla possibi-lità di dare nomi a percezioni, supposizioni non dette, sensazioni corporee e im-magini inconsce che avevano avuto una grande influenza sull’identità culturale di ciascun servizio, ma che, fino a quando non sono state svelate, rimanevano un “conosciuto non pensato”. (Bollas, 1987). I membri dello staff sono stati coinvolti dalla full immersion in un registro percettivo, un mondo non decodifi-cato di immagini e sensazioni – spesso ascritte all’ordine materno e fortemente dissociate dall’ordine paterno che introduce il linguaggio, nomina gli oggetti e offre definizione. Un gruppo di lavoro che non ha accesso al codice paterno, né
ad una sana integrazione dei due codici trova molto difficile riconoscere una linea di autorità e la struttura dei ruoli di un’organizzazione.
La direzione non riusciva a riconoscere che ogni servizio era in lutto per la perdita di ciò che “era prima” oltre a presentare difficoltà idiosincratiche che persistevano nella situazione attuale. Nessuno avrebbe parlato di trasferimen-to né di timori che si potessero perdere posti di lavoro. Questi argomenti erano stati spazzati sotto il tappeto, e così ad ogni angolo del tappeto un servizio territoriale stava guardando gli altri tre con sospetto e in modo attaccante.
La morte del precedente sistema organizzativo veniva negata, perché ‘il cambiamento era stato solo di tipo amministrativo’, e così c’erano sentimenti depressivi di perdita. Sarebbero affiorati in attacchi alla gestione, confusio-ne e frammentazione, scarso rendimento professionale, ansia persecutoria e paura per la propria sopravvivenza personale. Nel tumulto del cambiamento, la gestione e l’amministrazione non erano riuscite a vedere che sostituire an-che “solo una struttura amministrativa” con un’altra toccava simbolicamente i temi della morte, della vita e dei limiti della propria esistenza.
La consultazione ha toccato quella che potrebbe essere definita un’arche-ologia dell’inconscio, dissotterrando immagini primordiali, ben radicate nei diversi luoghi fisici e che erano alla base dell’identità di ogni equipe, oltre a legare insieme il gruppo di lavoro.
La consultazione
Il direttore del dipartimento sapeva che il dipartimento stava funzionando male e ha chiesto una supervisione di gruppo del personale.
La prima fase del lavoro si è svolta con tutto il gruppo: ha aiutato i membri ad arrivare a conoscersi l’un l’altro da un’angolazione non vista, diversa dalle riunioni d’equipe. La metodologia utilizzata era una combinazione di sogno sociale, lavoro di gruppo e clinico. Il compito era facilitare l’integrazione del-le equipe e offrire un lavoro migliore ai pazienti.
Quando il gruppo ha sentito che c’era un luogo in cui l’attenzione era ri-volta ad aiutare le equipe a esprimere le loro preoccupazioni e a funzionare meglio, si è sviluppato un timido sentimento di fiducia.
Tuttavia, dopo un periodo di riunioni regolari, i quattro gruppi erano ancora seduti come entità separate, ogni equipe si riferiva principalmente ai membri del proprio servizio e l’impressione era di un coro a quattro voci ancora troppo dissonanti.
Il macigno di base della disfunzione non era stato toccato. Scoppi senza senso di rabbia distruttiva continuavano a divampare troppo frequentemente, minacciando l’ancora delicata rete di relazioni. L’ipotesi in quel momento era che portare avanti il format di intervento con l’intero gruppo non avrebbe affrontato le radici del problema.
La direzione all’inizio era titubante, temeva una maggiore frammentazio-ne dopo l’investimento sulla consultazione dell’intero gruppo, ma alla fine la proposta di un numero limitato di sessioni in ciascun luogo è stata accettata con l’obiettivo di saperne di più sull’identità di ogni gruppo e su che cosa cia-scun gruppo rappresentava all’interno del sistema più grande, come punto di partenza per lo sviluppo della collaborazione.
Il lavoro si sarebbe concentrato, quindi, sull’identità di gruppo come ele-mento da riconoscere, esplorare e rafforzare in modo che ogni servizio potesse relazionarsi con gli altri da un punto di forza e di riconoscimento.
in ogni servizio a rotazione si sarebbe svolta una mezza giornata di supervi-sione; la progettazione dell’intervento includeva: matrice di Social Dreaming e riflessione sui sogni, supervisione di casi clinici, analisi dei ruoli organiz-zativi, (ORA) (Newton, Long, Sievers 2006). L’obiettivo era trovare i tratti identitari di ciascun servizio territoriale. Alla fine del ciclo di incontri, i gruppi avrebbero creato un’installazione per rappresentare l’identità del proprio ser-vizio affinché gli altri la vedessero.
La prima ipotesi per questo pezzo di lavoro era che ogni servizio territoriale fosse vincolato a un mito di fondazione, un principio/mentalità organizzatore, come parte della sua identità e che sarebbe stato utile portare alla luce tale mito e dargli un nome. Sapendo, dalla teoria freudiana dell’inconscio rimosso, che dare un nome a un oggetto genera una grande rete di significati correlati ad altri oggetti e nomi che abitano il mondo psichico degli individui e dei gruppi. I sogni avrebbero aiutato a nominare e mobilizzare modelli di comportamento congelati, patologici e ripetitivi.
La denominazione di ciascuno dei quattro principi organizzatori è stata pensata come il primo passo verso la fondazione di un reparto auspicabilmen-te collaborativo.
La seconda ipotesi nasceva da un’intuizione, profondamente sentita nella mia esperienza personale, ma senza molte prove ancora a supporto. Il sogno sociale, portatore di cultura e identità, è radicato in contesti diversi: il territo-rio è uno di questi. Spazi diversi portano alla luce sogni diversi. I sogni sono
legati a un tempo e uno spazio storici reali, che definiscono quale palcoscenico per quale performance.
Immagini, pensieri, credenze collettive rivelavano i miti fondanti di ogni cultura di gruppo e della sua identità. Da quell’esperienza iniziale, ho osserva-to che spesso le prime matrici in un posto nuovo offrono sogni con riferimenti a un tempo e uno spazio storici definiti.
La consultazione in situ
Durante la prima fase della supervisione dell’intero dipartimento, gli incon-tri si erano svolti o in quella che era ritenuta la stanza più grande dell’intero dipartimento (in realtà non abbastanza grande da contenere l’intero gruppo, cosa che di per sé era evidenza di un problema) o all’esterno, in sale riunioni affittate, quando era finanziariamente possibile farlo.
È stato con grande trepidazione e curiosità che sono andata per la prima volta nel più lontano e più ostile dei quattro servizi, quello che è stato definito “governo ombra”.
Si trovava in un bellissimo borgo medievale racchiuso tra spessi muri di pietra e annidato tra le colline. Lasciando l’auto parcheggiata fuori dalle mura, bisognava oltrepassare un’imponente porta cittadina e trovare l’edificio che ospitava il servizio a pochi metri di distanza. Era un vecchio convento, la por-ta sul retro era di fronte a un chiostro e alla sua chiesa. Muri in pietra spessi un metro, al piano terra, scuri e dietro finestre con le sbarre. L’ingresso era su una stradina lastricata, attraverso un portone che portava a una stanza a cupola piuttosto buia, designata come sala d’attesa. Lo psichiatra che dirigeva il servizio mi ha incontrato lì e lì ha avuto luogo la supervisione. Al confine. Il lavoro è iniziato con una SDM (Social Dreaming Matrix). Alcuni dei sogni parlavano della storia e della geografia del servizio:
• una moltitudine di uomini sconosciuti incappucciati che indossano una ve–
ste marrone come monaci …
• ero nella mia città natale, nel Medioevo …
• attraversiamo tunnel sotterranei e passaggi nascosti …
• i moschettieri mi danno una spada così posso aiutare la popolazione …
e altri parlavano di sentirsi sotto assedio, a rischio, in guerra:
• gli uomini stavano ferendo le persone, ma non era chiaro il motivo …
• da una piccola fenditura vedo persone gettate da una roccia in un enorme
burrone …
I casi clinici portati per supervisione presentavano pazienti molto disturbati, che abitano ambienti patologicamente chiusi e violenti; come ad esempio un giovane di 23 anni che aveva una storia di stupro ripetitivo e negli ultimi sette anni non era uscito dalla casa di famiglia, accudito da una madre che riempiva la casa, e la stanza di suo figlio, con le sue foto vestita da Madonna.
Tuttavia i pazienti, nonostante le circostanze avverse, potevano migliorare grazie al personale disponibile e alla loro premurosa dedizione.
L’ORA (analisi dei ruoli organizzativi) ha rafforzato ciò che stava emer-gendo nella SDM e nel lavoro clinico. La maggior parte del personale, nei differenti ruoli, parlava di “vocazione” e, nella scelta della professione, di aver seguito una “chiamata”.
Esplorando il materiale emerso durante gli incontri, l’equipe ha escogitato una possibile immagine inconscia alla base del proprio sistema al lavoro.
Il servizio è coeso per far fronte alle difficoltà di un ambiente ostile. È im-pegnato nella cura e nel salvataggio dei suoi pazienti. L’immagine amal-gamante è quella dei crociati.
La loro installazione rappresentava una fortezza medievale, con porte, mura di protezione e solo una porta aperta con un guardiano al centro.
C’era qualcosa di antiquato: oltre la professionalità individuale, la cultura del servizio sembrava guardare alla malattia mentale e al suo trattamento, più come una visione alla Florence Nightingale che secondo il DSM V …
Non c’è dubbio che una cultura simile, forse esacerbata dallo stretto contat-to e dalla concorrenza con gli altri servizi, non era favorevole alle aperture né allo scambio. Essa supportava il nutrimento di una cultura di gestione ombra all’interno del sistema più ampio.
I crociati
Il secondo servizio, un centro di riabilitazione, era situato all’interno di una struttura geriatrica, situata nella campagna, in mezzo al nulla, a miglia dalla città più vicina.
Come questa geografia potesse aiutare i pazienti psichiatrici nel loro pro
cesso di riabilitazione verso la ripresa di una vita autonoma, era una delle domande che lasciavano perplesso il personale e contribuiva all’impressione che nessuno prendesse sul serio il loro lavoro. Il personale e i pazienti si sen-tivano fuori posto.
I membri dell’equipe ospitavano la supervisione nella loro sala migliore, preparata per l’occasione con fiori e spuntini per la pausa tè. L’intero gruppo, un piccolo gruppo di quattro persone, era incredibilmente contento che qual-cuno si fosse preso la briga di venire fino là per incontrarli nel loro posto di lavoro.
C’era un misto di orgoglio per quello che stavano riuscendo a fare per i pazienti e di vergogna per lo stato malandato della loro sede.
I sogni parlavano di quel senso di fuori posto, dell’incertezza del loro fu-turo:
• Daniela – segretaria dell’ambulatorio geriatrico – comunica che sono stati licenziati tutti: dovreste tornarvene tutti a casa!
• camminiamo attraverso una natura meravigliosa, cascate, acqua, ma an–che se è giorno la luce è scura, buio! irreale! dove siamo?
• e del vicolo cieco in cui i pazienti si trovavano:
• uno dei giovani pazienti ha tentato il suicidio
• Ero con gli assistenti sociali ed entrambi tenevamo le mani di un paziente su una sedia a rotelle. Lui era nel torrente e noi eravamo sulle rive. Cam–miniamo, il torrente si fa più profondo. Alla fine il paziente va sott’acqua e annega. Continuiamo a camminare lungo le rive del fiume.
La supervisione del caso clinico non offriva quasi alcuna speranza: all’inizio i pazienti sembravano progredire, ma poi lo sviluppo si sarebbe fermato perché non c’era nessun posto dove continuare una realistica riabilitazione. Il perso-nale si considerava capace e molto dedito al proprio compito – e in effetti sta-vano prendendo molte iniziative utili con i loro pazienti – ma anche piuttosto scoraggiati sui risultati perché i pazienti erano effettivamente ai confini della cronicità. Il personale sentiva che sia la struttura fisica, sia l’amministrazione non avrebbero supportato i loro sforzi: i pazienti si stavano uniformando trop-po bene alla cultura geriatrica del loro ambiente.
L’installazione realizzata dallo staff era una zattera in balia del grande mare azzurro, mentre gli esseri su di essa – animali – stavano cercando di trovare un rifugio sicuro che li ospitasse.
L’immagine, pensavano, era una descrizione onesta del loro stato: alla de
riva su una zattera, in balia degli elementi, fingendo di essere pericolosi ma possedendo solo armi spuntate … alla ricerca di un rifugio sicuro e cercando di costruire una casa per sé. Il valore del nostro lavoro è rico-nosciuto?
Più tardi, nelle settimane successive, ci furono conversazioni realistiche sulla natura della cronicità e sul fatto che in una futura riorganizzazione della salute mentale avrebbe potuto non esserci alcuno spazio per un servizio come il loro.
La zattera
Il terzo servizio aveva ospitato la supervisione dell’intero gruppo durante la prima fase dei lavori. In seguito, ho potuto vedere che non era perché la stanza di quel servizio fosse effettivamente più grande, ma perché l’atteggiamento delle persone che ci lavoravano era più aperto e disponibile ad accogliere gli “stranieri”.
Era un piccolo edificio con il retro appoggiato a un pendio quasi verticale pieno di arbusti disordinati, a cui si accedeva da una delle strade principali che portavano ad un altro bellissimo centro storico medievale. Gli ingressi e le uscite in città passavano davanti al servizio. Le sue finestre frontali guarda-vano viste spettacolari di montagne lontane.
Il primo sogno della prima matrice:
Il sottotono dei sogni era vivace anche quando si presentavano eventi catastro-fici ‘Vedo un aeroplano decollare e cadere sulla chiesa in cui ci trovavamo: era una catastrofe!
Nei sogni c’era movimento: guidare, essere su un ascensore, andare a visi-tare i pazienti a casa. Come se i sogni cogliessero la natura fluida del servizio. In effetti l’equipe si stava occupando di un gran numero di pazienti dislocati su un vasto territorio ed era spesso in movimento; il personale offriva un buon lavoro di equipe che aiutava i pazienti a progredire quando potevano. Allo stesso tempo l’atteggiamento nei confronti dei pazienti cronici non era una né di speranza irrealistica né di abnegazione. Appariva come una buona e sana assistenza professionale.
Il primo paziente presentato in supervisione era un giovane borderline che
viveva in un paesino, circa dieci o quindici case lungo una strada … che ricor-dava l’ubicazione del servizio, a sua volta di passaggio.
Il personale era appassionato, ma non troppo identificato con il proprio la-voro; l’apprendimento era una motivazione importante, nella speranza che portasse ad un’ulteriore formazione e a un progresso nel ruolo.
Il servizio aveva sia un gruppo di personale stabile che uno più transitorio. Proprio durante il periodo della consultazione arrivarono e se ne andarono quattro psichiatri, tre infermiere, un assistente sociale … Il personale aveva imparato a far fronte alle emergenze.
L’installazione è stata denominata “porto marittimo”. Un servizio tra sta-bilità e instabilità, in mezzo agli altri servizi, un “porto marittimo” per il passaggio delle persone. Un luogo di lavoro, dove possiamo restare fermi, ma possiamo anche andare “oltre”.
Il quarto servizio era alla periferia di un piccolo paese medievale e ospitato in una delle ali dell’ospedale principale.
L’area gestionale dell’intero servizio era collocata lì; si era unita alla su-pervisione dell’intero gruppo, ma era tenuta fuori da questo specifico pezzo di lavoro. Lo spazio evocava sia la staticità di un’istituzione, sia la qualità di un luogo dove le persone erano solo di passaggio; sembrava che non ci fosse nessun posto dove fermarsi. La stanza comune era piccola e sovraffollata.
I sogni parlavano di tossicità (di essere all’interno dell’ospedale, vicino a tutti i tipi di pazienti, vicino all’area gestionale…)
• Ero in una bella casa con la mia famiglia. Sotto il mio appartamento apre un nuovo ristorante. I fumi sono così tossici che non possiamo respirare e dobbiamo chiamare la polizia. Il proprietario del ristorante dice ‘farò cosa voglio!’.
Il sogno, che era molto evocativo e alla fine coglieva ciò che lo staff percepiva come l’essenza del proprio servizio, aveva luogo nella loro città natale, nel vecchio centro medievale.
• Dalle mura della città si potevano osservare le strade brulicanti sottostan-ti, folle di persone che si muovevano avanti e indietro. Alcuni di loro spin–gevano carrelli pieni di vestiti sporchi. “Sono preoccupato, come faranno a sapere quale vestito appartiene a chi?”. Sovraffollato e indifferenziato in un mondo indifferente.
I pazienti avevano una malattia con cui convivere, erano percepiti come se
avessero possibilità molto scarse di recupero. Fu portato in supervisione il caso di una donna: la sua età era sconosciuta, sconosciuto il motivo della presa in carico e di cosa aveva effettivamente bisogno. Poteva solo essere tollerata e trattata come un peso morto.
• perso nei meandri degli intestini dell’ospedale, pronto per essere evacuato quando sarà venuto il momento... era uno dei sogni che ha catturato l’essen-za del dilemma del servizio: evacuazione o lavoro significativo?
I membri dello staff non avevano esplorato molto i loro ruoli, quanto la sensa-zione del peso che stavano portando.
La sensazione di dover condividere lo spazio con i pazienti, ma non come qualcosa che avrebbe potuto essere trasformato attraverso il loro intervento professionale – eppure la maggior parte di loro era estremamente capace come professionista. Sotto questo aspetto non c’era nulla dell’orgoglio delle altre equipe rispetto al loro ruoli con i pazienti e a come si consideravano in quel ruolo.
Sentivano sulle spalle peso e depressione. Chiamavano se stessi e il loro servizio, ‘le lavandaie stanche’. Lo stesso nome dato all’installazione che ritrae le mura medievali affacciate su un enorme bacino con donne che lavano biancheria sporca. Come tutti sanno, il compito di mantenere i vestiti puliti e lavati è infinito; forse le stanche lavandaie stavano cogliendo la natura este-nuante e ripetitiva della malattia mentale.
Quando questo breve ciclo di riunioni fu completato, riprese la consulta-zione a tutto il gruppo. Incredibile realizzare quanto velocemente l’identità di ogni servizio era diventata visibile, come era diventata accessibile l’indivi-duazione di un principio organizzativo – un mito fondativo – che univa ogni servizio alla sua equipe.
La location – architettura, paesaggio, natura – si era infatti rivelata una com-ponente essenziale della cultura di ogni servizio e i sogni erano il ponte di col-legamento che teneva insiem e il processo. La visione di se stessi nel ruolo e quella dei pazienti da trattare sembrava essere sintonica con la cultura rivelata.
I quattro servizi si sono incontrati e hanno condiviso i risultati del loro la-voro: ogni installazione è stata presentata con poche parole di introduzione, è seguito un tranquillo momento di osservazione, poi è stato chiesto a ciascuna equipe di introdurre una piccola modifica all’installazione delle altre squadre. Avevo pensato che potesse essere più facile avviare un dialogo attraverso gli oggetti, come lo era stato attraverso i sogni nella matrice.
Il primo gesto è stato esplosivo: è stato diretto alla fortezza medievale (la gestione ombra) e ha strappato l’intera parete frontale – non esattamente un piccolo cambiamento, in effetti solo l’inizio di una ondata scatenata di aggres-sione a tutte le installazioni.
Quando sono stati esaminati i risultati di tali modifiche, le persone erano perplesse, chiedendosi da dove provenisse la reale violenza.
Dopo la modifica, distruzione o fase iniziale di un’integrazione?
Era davvero un punto di partenza per comunicare il loro stato d’essere. Attraverso un ritrovato senso di identità e attraverso gli oggetti creati è stato
possibile confrontarsi con le difficoltà che ogni servizio stava affrontando.
Non è stato un processo semplice né lineare: era solo un punto di partenza.
Ogni servizio aveva la il suo nome geografico e il suo nome scelto: i crociati, la zattera, le lavandaie stanche, il porto di mare.
Nella fase successiva del lavoro gli oggetti della loro creazione diventaro-no parte della supervisione, come oggetti transizionali di un’identità appena rivelata.
Come potrebbe un porto marittimo relazionarsi ai crociati? Che cosa ave-vano in comune?
Dove andrebbe a finire una zattera galleggiante? Dove potrebbero scaricare peso le lavandaie stanche?
E altre domande relative all’identità simbolica che avevano scelta. L’interazione ha portato cambiamenti, fino a quando gli oggetti non sono
stati ripresi e non è stata data loro una nuova forma.
Conclusioni
Le identità erano definite più chiaramente. Le dinamiche tra i servizi erano an-cora molto attive, ma meno distruttive, espresse apertamente e sotto gli occhi di ogni membro del personale; c’era meno bisogno di dar loro voce attraverso conflitti tra individui.
Al di là delle capacità professionali delle persone, era chiaro che il modello di lavoro più funzionale era rappresentato dal ‘porto marittimo’ che offriva al sistema nel suo insieme una cultura di inclusione e movimento che nel tempo avrebbe potuto essere seguita e integrata dagli altri.
Circa un anno dopo la fase iniziale del lavoro sull’identità (e lo spazio), è diventato possibile spostare l’attenzione dal territorio ai ruoli: varcando i con
fini dei quattro territori, le equipe potevano lavorare suddividendosi in base ai ruoli (infermieri, medici, assistenti sociali, ecc.) per esplorare buone pratiche, lavoro sui casi e supporto del ruolo.
A quel punto sembrava che fosse stato trovato un modello per funzionare come sistema.
La supervisione proseguì per altri due anni, consolidando quanto avviato dai lavori sull’identità: alla fine c’erano sia un dipartimento che lavorava nel suo insieme, in particolare di fronte alle emergenze, sia quattro servizi terri-toriali che componevano il dipartimento, ciascuno consapevole di quello che stava portando al sistema nel suo complesso.
Questo lavoro evidenzia come la ricerca di un indizio assente, un “ignoto” porti ad esplorare gli elementi dell’identità del luogo di lavoro. La connes-sione dei sogni con il territorio era essenziale per rivelare strutture psichiche profonde che stavano alla base della cultura.
Le visioni del ruolo professionale del personale così come del trattamento dei pazienti sono apparse coerenti e sintoniche nella loro specifica identità culturale.
Le trasformazioni erano avvenute una volta che ciascuno di questi elementi aveva trovato la propria voce.
Rosone: Buongiorno a tutti, io sono molto grata per essere qui insieme a tutti a voi per il 35º compleanno di A.P.R.A.G.I., come diceva Alice quan-do insieme a lei, a Manuela e a Franca Fubini ci siamo incontrate qualche pomeriggio fa per la preparazione di questo pezzo di seminario, Armstrong ci ha chiesto di collaborare con lui per raccontarvi il suo lavoro di Social Dreaming, e ci ha chiesto di farlo entrando proprio in dialogo col paper, mettendo in evidenza l’esperienza che noi avevamo fatto col paper stesso. Subito ho pensato “…per nulla facile! Cosa ci sta chiedendo?”, e allora per-mettetemi un attimo di ringraziare la collega Cristiana Novero e Manuela Serra per lo scambio davvero profondo di pensieri, ed Alice e David per questa opportunità.
E così, come vi dicevo, dopo un confronto io e Manuela abbiamo deciso di mettere in luce alcuni punti che ci sembravano potessero stimolare un dialogo e la riflessione tra noi oggi: questa è stata una scelta intenzionale, intenzionale e consapevole, perché, per certi versi, ha a che fare con le nostre matrici di appartenenza, ovvero con alcune connessioni su quei temi teorico clinici di cui A.P.R.A.G.I. si occupa ormai da una quindicina d’anni.
Serra: Riprendendo le cose che ci ha appena raccontato Gabriella, abbiamo subito rintracciato nel paper di David Armstrong proprio un po’ le nostre basi teoriche: prima Alice parlava del sogno, che è proprio un elemento a noi molto caro perché ci riporta ad Anna Maria Traveni, e questo è sicura-mente uno dei pilastri fondativi di A.P.R.A.G.I.. E poi la base, il pensiero psicoanalitico, perché questa è anche una delle matrici fondanti della nostra appartenenza.
In particolare ci ha tanto colpito il racconto che David ci fa – molto ge-nerosamente – proprio dell’evoluzione del pensiero psicoanalitico legato proprio al sogno, partendo da Freud, in cui il sogno è descritto non come un
disvelatore ma come un censore, come un nascondiglio rispetto ai pensieri del sognatore, fino ad attraversare invece i pensieri di Bion, di Meltzer e di Gordon Lorenz in cui il sogno assume una funzione diversa, diametralmen-te opposta direi, perché diventa proprio un’esperienza emotiva prima della parola, emotivamente proprio importante, un vero e proprio modo di pensa-re, un pensiero intriso emotivamente e che ha la sua cornice in un contesto relazionale condiviso.
Nel paper di David Armstrong ci è sembrato proprio di vederlo questo pro-cesso perché nella descrizione che lui fa proprio dei primi momenti in cui l’autorità del sogno viene alla luce, proprio nella sua consulenza al ruolo di una preside di una scuola, è proprio evidente come ci è stato proprio un mo-mento di incubazione del pensiero finché il sogno ha portato alla luce una consapevolezza, una comprensione di quello che stava capitando… questo ci è sembrato molto interessante.
Rosone: Adesso proviamo proprio ad entrare nel merito e chiederei, proprio per metterci in dialogo con David, a Davide di intervenire quando crede, di interromperci, di farci dei segni, proprio per iniziare lo scambio.
Ci sembrava opportuno partire dal contesto nel senso che, se il sogno par-la in modo rappresentativo del contesto sociale, allora allo stesso tempo non può essere disgiunto dal contesto stesso nel quale viene comunicato e condiviso. E questo ci sembra un interessante allargamento del focus cioè: dal setting individuale e duale – che è più soggettivo – al setting gruppale, d’altra parte è noto che la gruppoanalisi è proprio la psicoanalisi applicata ai gruppi.
E a proposito di contesto e di appartenenza ci siamo anche interrogate rispetto al contesto di questa giornata, dove la seconda parte è dedicata proprio ad un’esperienza di Social Dreaming, e allora ci chiedevamo: quali differenze metodologiche si possono evidenziare nel lavoro con la leadership del sogno con situazioni ed esperienze più limitate nel tempo come quella di oggi ri-spetto ad esperienze come quelle invece descritte nel paper? E in che modo un’esperienza di Social Dreaming può avere effetti trasformativi in un grup-po di lavoro?Sogno non solo da interpretare ma che interpreta e da un signifi-cato trasformativo, che se ben utilizzato libera qualcosa di nascosto, o quanto meno che non è ancora conosciuto. Nel paper Armstrong racconta come gli anziani di una tribù trasformavano il racconto di un sogno in un pensiero cosciente esplicito sulle sfide che la tribù avrebbe dovuto affrontare.
Armstrong: Innanzitutto il contesto in cui ci incontriamo oggi è rappresenta-to dall’età di mezzo o la mezza età dell’A.P.R.A.G.I., e tutto ciò è collegato in un contesto più ampio cioè nel contesto di quanto sta accadendo nel più ampio scenario mondiale attualmente e quindi, il virus.
Quindi c’è una connessione, un link tra questa mezza età dell’A.P.R.A.G.I.
e il contesto in cui siamo oggi siamo chiamati ad operare.
Rispetto alla domanda rispetto su che cosa possa accadere a livello trasfor-mativo in una giornata di lavoro rispetto ad un processo continuativo è che ciò che può accadere a livello di trasformazione in un’esperienza puntuale di un giorno non ha una risposta a livello teorico. L’unica cosa che possia-mo dire è: vedremo alla fine della giornata.
Non si può veramente predire quale possa essere l’impatto trasformativo, se emerge un sogno che può fare la differenza, l’unica cosa che possiamo fare è rimanere e stare in uno stato di allerta e vedere cosa emerge.
Serra: Colpisce l’assonanza e il modo in cui David Amstrong intende il sogno con il filone di approfondimento che ormai, da lungo tempo, alcuni soci di A.P.R.A.G.I. stanno studiando. Mi riferisco all’interesse sviluppato per l’emdr, la mindfulness, il neurofeedback, e in generale la neurofisiologia del trauma, in cui il corpo è presente, parafrasando Amstrong, con la sua “autorità” nel narrare o presentificare una storia o la possibilità di elabora-zione di essa. A questo proposito mi viene in mente un gesto che, durante la terapia con un paziente, ha presentificato il ricordo di un atto di bullismo subito anni prima e le implicazioni che questo aveva lascito nella sua vita attuale, nella preoccupazione ossessiva che aveva nel controllo degli altri.
Rosone: Abbiamo trovato interessante il passaggio da interpretazione del so-gno a comprensione del sogno. Rispetto al Sogno come atto di cittadiman-za, come finestra sulla cittadinanza inconscia. Siamo state parecchio solle-citate dalla responsabilità del sognatore che nella matrice affida al sogno una comunicazione, volevamo chiedere quindi a David quali indicazioni in questo senso da il terapeuta ai partecipanti? Ci sembra necessaria quindi la presenza di un setting rigoroso, nel senso di tutelante nei confronti del lavo-ro e del gruppo stesso. Sogno come atto di cittadinanza che dal mio punto di vista comporta reciprocità di diritti e di doveri, che rimanda nuovamente all’assunzione di responsabilità da parte dei mebri-sognatori.
Serra: Su un versante più sociale, questo lavoro fa riflettere sulla cosiddet-ta “rivoluzione tecnologica”, che come società stiamo attraversando. A tal proposito, Bollas nel suo libro “L’età dello smarrimento” mette in eviden-za un cambiamento rispetto al funzionamento mentale che, a partire dall’ industrializzazione fino ad arrivare all’era del mondo globale, hanno pro-fondamente cambiato la natura e la funzione del sé a favore della sempli-ficazione della complessità. Su questi tema è stato pubblicato una raccolta di articoli a cura di Francesco De Biase, in cui ci sono i contributi di tre socie A.P.R.A.G.I., Saura Fornero, Alice Mulasso e Alma Gentinetta insie-me a esperti provenienti da più discipline in cui ci si interroga sul tema del rimediare nel senso di cura e nel ri-mediare nel senso di rendere pensabili i fenomeni della nostra attualità. In questo senso mi chiedo se il lavoro di David Amstrong rispetto all’autorità/leadership del sogno non possa essere visto anche come un rimediare o ri-mediare alla complessità dell’esistenza attuale, quando parla del sogno come spazio sociale e come atto di cittadi-nanza, uno degli strumenti di mediazione a partire dalla costruzione di un contesto condiviso emotivamente significativo.
Corso esperienziale MINDFULNESS CLINICA E GRUPPOANALISI
Livello base: muoversi con consapevolezza nello spazio terapeutico;
Livello avanzato: uno strumento utile nell’elaborazione del trauma, un sostegno all’operatore coinvolto in una relazione di aiuto.
L’obiettivo della formazione è sviluppare la capacità di approfondire il pro-prio stato di presenza e di apprendere come portare questo stato di consa-pevolezza nella relazione in quanto strumento di cura e protezione del be-nessere di paziente e terapeuta. L’attenzione alla qualità dell’esserci nella relazione sarà il campo d’indagine nel processo relazionale tra il terapeuta e il paziente, aprendo la consapevolezza alla percezione dei differenti li-velli energetici presenti nel campo. Ampio spazio sarà dato al concetto di campo relazionale ed energetico, con particolare attenzione all’interazione tra terapeuta e paziente sia in ambito individuale che gruppale.
I corsi, della durata di 30 ore ciascuno, si articolano in incontri di quattro o otto ore e sono accreditati con 44 CREDITI ECM per tutte le professioni sanitarie
Corso LAVORARE IN RELAZIONE
Il corso è indirizzato ai professionisti nel cui ambito lavorativo sia rile-vante l’aspetto relazionale, individuale e di gruppo in ambito sanitario, educativo e sociale.
Il corso è finalizzato ad aumentare la capacità del saper lavorare in relazio-ne con gli altri: saper sviluppare la cooperazione volta al raggiungimento degli obiettivi dati e saper gestire la naturale conflittualità che si attiva nel gruppo di lavoro. Imparare a valorizzare competenze differenti e profes-sioni diverse che si trovano a condividere un progetto di lavoro.
Il percorso formativo di 20 ore, si articola in 8 incontri di 2 ore e mezza ciascuno in piccolo gruppo a conduzione gruppoanalitica in orario prese-rale/serale.
Tematiche approfondite durante gli incontri:
• la valutazione della giusta distanza
• la valutazione del tempo come risorsa e come limite
• la consapevolezza del contesto professionale
• la consapevolezza di risorse e limiti dei gruppi di lavoro
• la gestione dei conflitti e dei momenti critici
Corso introduttivo al METODO RORSCHACH
Rivolto a psicoterapeuti, psicologi, studenti e laureati in psicologia.
Il corso si pone l’obiettivo di introdurre i fondamenti del metodo Rorschach dalla siglatura fino alla stesura dello psicogramma.
In ambito sia pubblico sia privato l’osservazione e la valutazione del fun-zionamento del paziente costituisce una fase preliminare irrinunciabi-le per la scelta, la progettazione e l’impostazione di qualsiasi intervento psicologico. I partecipanti potranno sperimentarsi nell’utilizzo del test di
Rorschach attraverso esperienze pratiche ed esemplificazioni cliniche. La possibilità di leggere e comprendere l’uso del test all’interno del campo relazionale, sia in assetto psicodiagnostico sia in assetto psicoterapeutico, costituisce la specificità dell’approccio gruppoanalitico.
Il corso, della durata di 24 ore, si articolerà in tre incontri intensivi nella giornata di sabato.
GRUPPO DI PRATICA MINDFULNESS
Attività di approfondimento e manutenzione delle pratiche Mindfulness sperimentate nei Corsi di Mindfulness Clinica e gruppoanalisi con la fi-nalità esplicita di favorire l’arricchimento della competenza e dell’efficacia clinica di chi vi partecipa attraverso il gruppo.
FORMAZIONE ALLA CONDUZIONE DI GRUPPO PER UTENTI CON DISABILITÀ E LORO CAREGIVERS
Formazione alla sensibilizzazione, riconoscimento e modulazione delle dinamiche di gruppo specifiche di un gruppo rivolto a utenti con disabilità e loro caregivers.
Percorso di conoscenza e sviluppo, attraverso il lavoro in gruppo, delle attidudini, delle conoscenze e delle competenze utili all’allestimento e ge-stione di gruppi rivolti a utenti con disabilità e loro caregivers. Attraver-so l’esplorazione e la valorizzazione delle esperienze dei partecipanti si promuoveranno le competenze specifiche necessarie nella conduzione di gruppi. Si attiverà un processo interpersonale collaborativo che permetterà di apprendere attraverso l’esperienza di confronto e condivisione del grup-po di formazione.
Il corso, della durata di 30 ore, si rivolge a educatori, OSS, infermieri, psicologi, operatori della relazione di aiuto che lavorano nell’ambito della disabilità.
Cicli di incontri SUPERVISIONE CLINICA
Indirizzati a psicoterapeuti, psicologi e medici, si articolano in 6 in-contri di 2 ore e mezza ciascuno, a cadenza quindicinale, in orario pre-serale o serale.
L’obiettivo è fornire strumenti clinici adeguati alla complessità della psicoterapia duale, familiare e di gruppo.
La discussione dei casi clinici in piccolo gruppo (8-10 partecipanti) a con-duzione gruppoanalitica considera specificamente:
• il contesto professionale e l’analisi della domanda • la gestione terapeutica del processo diagnostico • l’allestimento e la gestione del setting di cura
• l’utilizzo del transfert, delle dinamiche co-transferali e della prospettiva transpersonale e transgenerazionale
• la lettura delle dinamiche interne al gruppo di supervisione
SENSIBILIZZAZIONE ALLA PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA
Il corso di sensibilizzazione alla psicologia dell’Emergenza è organizzato grazie all’apporto e all’esperienza dei colleghi che fanno parte dell’Asso-ciazione Psicologi per i Popoli Piemonte.
L’obiettivo del corso è quello di fornire una conoscenza di base rispet-to agli interventi della psicologia in situazioni di emergenza quali: maxi emergenze, terremoti ed alluvioni; attività di supporto in situazioni di persone scomparse; situazioni traumatiche dovute ad azioni terroristiche; situazioni traumatiche dovute a condizioni migratorie. È inoltre presenta-ta la campagna “Io non rischio” volta alla sensibilizzazione e alla respon-sabilizzazione della popolazione rispetto alla prevenzione.
SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICOTERAPIA PSICOANALITICA COIRAG
Riconosciuta dallo Stato con Decreto del MURST del 31.12.1993
La Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica COIRAG (www. coirag.org) ha durata quadriennale e rilascia il Diploma in Psicoterapia; pos-sono presentare domanda di iscrizione i laureati in Psicologia e in Medicina.
La Scuola è attualmente presente a Torino, Milano, Padova, Roma, Palermo. L’Associazione A.P.R.A.G.I. è attivamente impegnata nella Scuola di Psi-coterapia COIRAG, a livello centrale (Commissione Didattica Nazionale e
Workshop Nazionale) e nella Sede di Torino.
Fondamento del paradigma della Scuola Coirag è la coniugazione tra psi-coanalisi e gruppo, che si declina nella concezione gruppale della mente e dunque della relazione terapeutica e si applica a tutti gli ambiti di cura: indivi-duo (minore, adolescente, adulto, anziano), coppia, famiglia, gruppo clinico, gruppo di lavoro, istituzione pubblica e privata.
Caratteristiche della Scuola COIRAG sono:
• l’attenzione alla coniugazione costante tra teoria, metodo e pratiche profes-sionali
• l’utilizzo sistematico del gruppo di formazione come veicolo di apprendi-mento della complessità della relazione terapeutica
• la promozione dell’assunzione di responsabilità del proprio progetto for-mativo
Obiettivo principale della Scuola Coirag è formare psicoterapeuti capaci di:
• leggere e reggere la complessità odierna della relazione terapeutica
• coniugare efficacemente rigore epistemologico e clinico con le varie e complesse forme patologiche attuali
• collocarsi correttamente nei vari contesti e costruire setting di volta in volta adeguati ai bisogni di cura e alle domande di cura
• assumersi la responsabilità della relazione terapeutica e delle sue connes-sioni istituzionali e sociali
Il percorso formativo prevede 500 ore annuali di insegnamento teorico e di formazione pratica, di cui 170 ore di Tirocinio in Strutture e Servizi pubblici e privati accreditati.
Le attività didattiche si articolano in:
• unità di insegnamento e di supervisione
• unità di insegnamento e di supervisione
• seminari e workshop
• monitoraggio del percorso formativo individuale e di gruppo
• gruppi esperienziali di Sede
• workshop esperienziale nazionale
Principali aree di insegnamento:
• Psicologia generale e dello sviluppo
• Psicologia clinica
• Psicopatologia e Psicodiagnostica
• Psicoterapia psicoanalitica individuale
• Psicoterapia psicoanalitica di gruppo
• Teorie e tecniche di gruppo: Gruppoanalisi, Psicodramma, Analisi Istitu-zionale
• Epistemologia, Etica della Psicoterapia, Antropologia, Psicologia Sociale
PRESENTAZIONE DI ARCIPELAGO s.c.s.
La Cooperativa Arcipelago è nata a Torino nel 2008 su iniziativa di un gruppo di psicologi, psicoterapeuti, educatori e formatori con specifica preparazione ed esperienza nella prevenzione e nella cura del disagio psicologico e sociale in ambito pubblico e privato, ed è sostenuta dalle fondazioni Oltre e Paideia. Arcipelago si propone di offrire prestazioni che sappiano rispondere, con interventi individuali e di gruppo, alle diverse forme e manifestazioni del crescente disagio socio-esistenziale, con particolare riferimento ai nuovi bisogni socio-psicologici.
Gli interventi della cooperativa, erogati a tariffe accessibili, si rivolgono a bambini, adolescenti, adulti, anziani, nonché ad istituzioni e gruppi di lavoro, attraverso attività di prevenzione, educative e pedagogiche, interventi clinici, proposte formative e di consulenza a gruppi di lavoro. Un’area di intervento importante della cooperativa riguarda il lavoro con le persone disabili ed i loro familiari, in stretta collaborazione con la Fondazione Paideia e con altre realtà del territorio che si adoperano in questo ambito. Arcipelago ha scelto di erogare le sue prestazioni a prezzi calmierati di modo da rappresentare un’opportunità di cura accessibile a un’ampia fascia della popolazione (in una collocazione intermedia tra l’offerta sanitaria pubblica e quella privata).
Arcipelago agisce in una prospettiva di collaborazione e integrazione con le risorse esistenti sul territorio: con i servizi sanitari in ambito pubblico e del privato sociale, con i medici e gli altri professionisti che sono parte dell’attuale rete di invio della cooperativa.
Operativamente, l’équipe di lavoro di Arcipelago individua, dopo una consulenza iniziale, percorsi di sostegno o psicoterapeutici, individuali o di gruppo, consoni alla valutazione sintomatica del livello di bisogno del cliente. I tempi di accesso al centro sono contenuti e, quando possibile, si definiscono i tempi della terapia.
Centro ARCIPELAGO Via Beaumont, 2 Torino-011 7640440 346 5938792 www.centroarcipelago.org centroarcipelago@centroarcipelago.org